di David Allegranti
ROMA (Public Policy) – La compattezza del centrodestra non c’è, almeno per ora. Lo testimonia l’elezione di Ignazio La Russa presidente del Senato, senza i voti di Forza Italia e con un Silvio Berlusconi visibilmente accigliato (si è concesso anche nell’aula del Senato un vistoso vaffanculo). È la spia di difficoltà che saranno aumentate nelle prossime settimane o sono soltanto scosse di assestamento in vista della nascita del futuro esecutivo? Riccardo Mazzoni sul Tempo ha ricordato un precedente istruttivo. Nel 2006, dopo la vittoria elettorale dell’Unione, il presidente di palazzo Madama designato dalla maggioranza di centrosinistra era Franco Marini, “ma fu impallinato nelle prime battute da tre franchi tiratori che nella scheda scrissero Francesco invece di Franco per dare un segnale a Prodi sulla composizione del Governo che si sta delineando”.
Marini fu comunque eletto, “ma quella fu l’avvisaglia di una navigazione tumultuosa che avrebbe portato in due soli anni alle elezioni anticipate”. La differenza sostanziale, sottolineava Mazzoni, è che l’Unione era una accozzaglia, mentre il centrodestra che ha vinto le elezioni ha ottenuto un largo vantaggio grazie a una coalizione in teoria coesa. La domanda è legittima: se il centrodestra scivola sull’elezione del presidente del Senato, che cosa accadrà poi?
Insomma, la futura presidente del Consiglio ha già capito che cosa vuol dire avere a che fare con Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Due leader di partito in difficoltà per motivi diversi: il primo ha un potere enorme su Forza Italia, di cui è monarca ma non riesce ad accettare che il tempo scorra, il secondo è sotto accusa per lo scarso risultato ottenuto alle elezioni politiche in un partito che non rottama segretari ma che ha una leadership contendibile.
Le difficoltà endogene del Governo Meloni sono dunque riferibili, al momento, agli alleati. Poi ci sono quelle esogene. Il contesto internazionale. La guerra. L’aumento dell’inflazione. Il costo delle materie prime. L’instabilità sociale. Mentre Meloni può incidere politicamente sui problemi di casa propria – anche soltanto quelli strettamente politici – sul resto è tutto più complicato. Nessuna leadership al mondo è in grado di incidere significativamente nelle dinamiche delle società complesse. Per questo anche Meloni ha compreso che non si può governare contro l’Europa, come qualcuno dei suoi alleati vorrebbe tutt’ora.
C’è poi il centrosinistra. Una parte dell’opposizione ha partecipato al voto per La Russa. Nel Pd si sono affrettati a dare la colpa al solito Matteo Renzi, il quale ha negato con fermezza. Nel caso, sarebbe davvero una mossa alla Renzi, perché con pochi voti avrebbe dimostrato quanto è facile mettere in difficoltà il centrodestra, la cui compattezza è già venuta meno. Una mossa politicamente abile, che non è evidentemente frutto del caso. Lo si è capito anche dal modo in cui La Russa ha ringraziato, appena eletto, anche chi lo ha votato pur non facendo parte della sua maggioranza.
I rapporti fra Pd e Terzo polo rimangono dunque tesi, quelli fra Pd e M5s sono ancora da decifrare. Per i dem c’è un rischio: che il M5s adesso li superi nei sondaggi, mentre sono affaccendati in vicende congressuali. Ogni giorno spunta un potenziale aspirante segretario del Pd. Come facevano notare alcuni esponenti del Pd però in questi giorni, alla fine si arriverà a una sintesi. I candidati potenziali al momento sono Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna (magari in ticket con Elly Schlein), Dario Nardella, sindaco di Firenze, appoggiato da Dario Franceschini e forse da Enrico Letta, e Andrea Orlando. C’è poi la candidatura, già annunciata, di Paola De Micheli. Serviranno 5mila firme per presentarsi al congresso, forse le ambizioni saranno ridimensionate, almeno per qualcuno. Per il Pd c’è l’occasione di uscire dal congresso con una nuova identità.
C’è chi parla insistentemente di scioglimento e rifondazione, ma forse basterebbe uscire dalle ambiguità di un partito diviso sempre fra due anime – una più riformista, l’altra più massimalista – e dunque terreno di conquista dei populisti. Giuseppe Conte, d’altronde, sembra ben disposto a scippare voti al Pd, con quella sua piattaforma radical-populista che piace a molta sinistra. Forse trovandola più coerente con i propri valori di ispirazione. Il risultato potrebbe essere una radicalizzazione del M5s e un impoverimento del Pd in termini di voti. Ma il congresso dovrebbe servire al Pd a evitare la deriva verso percentuali ancora inferiori a quelle del 25 settembre. In caso contrario, il Pd finirebbe la sua storia proprio dopo aver compiuto appena 15 anni (lo scorso 14 ottobre). Un partito giovane ma già troppo vecchio?
@davidallegranti
(foto Daniela Sala / Public Policy)