L’Europa come nemesi

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di Víctor J. Vázquez*

ROMA (Public Policy) – L’Unione europea non è solo un modello alternativo agli Stati Uniti: ora, il suo antico alleato punta su di lei come un nemico. Paradossalmente, l’identità e la sovranità degli Stati europei dipendono da quelle dell’Unione.

Europa come realtà e utopia

L’unione dell’Europa è stata una predizione dell’Illuminismo. “Arriverà un giorno”, annunciò Victor Hugo alle vecchie nazioni europee al Congresso della Pace del 1849, “in cui, senza perdere le vostre qualità distintive né la vostra gloriosa individualità, vi fonderete strettamente in un’unità superiore e costituirete la fratellanza europea”. La federalizzazione repubblicana dell’Europa, l’aspirazione che nel continente si generasse il processo di unità e pacificazione che si era gradualmente prodotto all’interno dei confini degli Stati, fu anticipata anche da Montesquieu o da Voltaire, ed è inoltre inseparabile dall’ideale universalista che Kant sviluppa nella sua opera Sulla pace perpetua: la federazione libera di Stati repubblicani governati da leggi internazionali pubbliche e da un diritto cosmopolita che garantisca ai cittadini certe condizioni di ospitalità universale.

Questo presagio illuminista di un’Europa uñita, però, non era realizzabile a qualsiasi prezzo o in qualsiasi modo, in quanto era inseparabile da un orizzonte utopico. Tra la predizione e la creazione dell’unione, tuttavia, si sono frapposte due guerre europee, tanto che, come ha scritto di recente il filosofo Francis Wolff, nata dal magma sporco del genocidio e del totalitarismo, l’Europa unita è, più che la realizzazione di un’utopia filosofica, “un’utopia in azione” scaturita dalla punizione esemplare. Una pace hobbesiana dopo la guerra di tutti contro tutti che, vista retrospettivamente, ci permette di considerare le due guerre mondiali come guerre civili nella loro dimensione continentale. “La Francia e la Germania sono sostanzialmente l’Europa” avrebbe detto ancora Victor Hugo. “Sono sorelle nel passato, sorelle nel presente e sorelle nel futuro».

Pensando alla velocità con cui è stata fondata dopo la barbarie, è difficile negare che la modesta Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio del 1951 fosse già una vera conquista, come primo esempio e prologo di una nuova comprensione della sovranità dei popoli europei. E, se guardassimo con gli occhi di un europeo tra le due guerre mondiali, potremmo benissimo definire tutto ciò che ha fatto seguito fino a oggi come una profezia utopica e autoavverata. Nonostante ciò, l’Unione Europea sembra non riuscire a liberarsi di una certa aura di esistenzialismo. È una realtà politica che non riesce a trovare pienamente la sua celebrazione sentimentale. Per molte generazioni di europei non è mai esistita una coscienza epica della costruzione dell’unità europea, né hanno compreso la loro comunità di diritto come il raggiungimento concreto di quell’ideale cosmopolita. Le due grandi guerre sono ormai lontane nel tempo e nel processo di costruzione dell’Unione– frustrato dal “no” francese e olandese al trattato che ne stabiliva la Costituzione – nulla è servito a trovare un sostituto al mito democratico del potere costituente. La successione di eventi politici e giuridici di straordinaria complessità che ha portato dalle comunità all’attuale Unione dei ventisette Stati membri, manca perciò una carica simbolica sufficiente per essere vista con la’intensità creativa che, a nostro parere, dovrebbe essere all’origine degli Stati Uniti d’Europa.

Anche il fatto che l’immagine comune, l’archetipo con cui identifichiamo lo Stato democratico, a partire dalle sue strutture governative, territoriali e sociali, non serva per descrivere l’Unione ha permesso agli scettici di uno e dell’altro segno, come sappiamo, di mantenere sempre aperto l’interrogativo sulla legittimità dei poteri europei

L’idea dell’Unione come OGNI, cioè, come Oggetto Giuridico Non Identificato, o le teorie evolutive, autopoietiche o costruttiviste che fanno appello al concetto di governance, come processo continuo di rielaborazione, negoziazione e interpretazione del quadro giuridico dell’Unione, hanno fascino intellettuale e capacità descrittiva, ma non sembra che, al di fuori del mondo accademico, siano state sufficientemente persuasive per rispondere all’accusa, spesso costruita su una visione mitica della vita democratica nazionale, secondo cui l’Unione sarebbe priva di un principio di legittimazione robusto.

Le pietre miliari dell’integrazione e dell’espansione dell’Unione dimostrerebbero la sua inerzia, ma non la esonererebbero dal pessimismo o esistenzialismo democratico. L’Unione, come ha spiegato il professor Juan Luis Requejo, può essere vista come il raggiungimento e allo stesso tempo come la fine del sogno costituzionale. Infatti, se questa pone fine al paradigma della sovranità statale, i vecchi sovrani, rifugiati nell’Unione e spogliati dai limiti e dagli obblighi democratici, possono imporre una volontà normativa in certa misura estranea ai cittadini.

Europa senza europei

In una recente conferenza sull’Europa, tenutasi al Collège de France, il filosofo tedesco Peter Sloterdijk ha pragmáticamente definito l’elemento demografico dell’Unione, l’europeo medio, come “qualcuno che consuma all’anno 11 litri di alcol puro, 6,2 chili di salsicce bollite, 900 grammi di miele, che ha una vita attiva di 35,9 anni, percorre ogni anno 12.000 chilometri e ha tra 0,75 e 0,85 figli, un decimo dei quali concepiti in letti Ikea”. Questa ironia era il preludio di una diagnosi poco pietosa, in cui l’europeo appare come “la reincarnazione dell’ingratitudine”, qualcuno che non vuole sapere nulla delle sue radici esistenziali. Un’ingratitudine che avrebbe per tanto origine nella mancanza di cultura su sé stesso. L’identità politica dell’europeo sarebbe quindi un’identità anfibia o superficiale, un mero stile cosmopolita che ricopre i vecchi abiti nazionali. Questa difficoltà a considerarsi europeo comporterebbe anche un limite all’autostima in un mondo globalizzato. Alle Olimpiadi di Pechino, dove la Cina ha mostrato il suo biglietto da visita come potenza mondiale vincendo nel medagliere, Felipe González, ex presidente del governo spagnolo, si chiedeva perché, lungi dall’essere semplici spettatori abbattuti di fronte a questo cambiamento, non fossimo in grado di vedere che l’Unione Europea aveva vinto più medaglie della Cina, degli Stati Uniti e della Russia messi insieme. La risposta a questa domanda sembra semplice: nella determinazione dell’identità prevale ancora il vecchio abito nazionale.

Sprovvista di un ethos comune, l’incapacità di costruire un demos, un vero popolo europeo, condannerebbe la nostra identità al cinismo o al nichilismo. Relativizzerebbe la portata del contratto sociale europeo. Comunque sia, in assenza di ethos e consapevoli delle imperfezioni del nostro popolo politico, dalla crisi del debito fino ad oggi la realtà ci ha mostrato con ostinazione che abbiamo problemi comuni come europei e che è proprio quell’associazione politica di cui facciamo parte l’unico quadro a partire dal quale è possibile articolare una difesa della prosperità. Diciamo che l’europeo medio, pur non essendo consapevole di quanta Grecia, quanta Roma e quanta Gerusalemme ci sono dentro di lui e di come questo fatto lo unisca in maniera esistenziale ai suoi vicini, ha, come loro, l’Europa come necessità.

Europa come necessità

Nel 2015 un giurista spagnolo, Pedro Cruz Villalón, formatosi come costituzionalista in Germania durante la nostra dittatura, espose in qualità di avvocato generale alla Corte di giustizia dell’Unione le sue conclusioni su una questione pregiudiziale sollevata dalla Corte costituzionale tedesca, la prima nella sua storia, relativa all’adeguatezza del programma OMT, annunciato dalla Banca centrale europea, per l’acquisto di debito pubblico degli Stati membri sui mercati secondari, con l’obiettivo di stabilizzare i mercati finanziari nazionali. La risposta data a tale questione, come sapete, è stata che il programma della BCE non violava il divieto di finanziamento monetario degli Stati membri stabilito dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Come è noto, l’OMT concretizzava la ormai celebre espressione dell’allora presidente della BCE, Mario Draghi: la volontà di fare “tutto il necessario” per salvare l’euro. Quel fatto era già stato visto come un “momento hamiltoniano”, in riferimento all’azione del primo segretario del Tesoro degli Stati Uniti per unificare, dopo la guerra d’indipendenza, il debito dei nuovi Stati. Tuttavia, quest’espressione ha avuto un vero e proprio successo con il programma di ripresa NextGeneration, con il quale l’UE ha mobilitato oltre 800 miliardi di euro, tra prestiti e sovvenzioni agli Stati, per alleviare i danni economici causati dalla pandemia. Sebbene il parallelismo con il momento hamiltoniano sia leggermente impreciso, poiché con esso la federazione aumentò anche in maniera qualitativa la sua capacità fiscale, cosa che non è avvenuta nell’Unione, è innegabile che negli ultimi dieci anni, e nonostante la Brexit ci abbia ricordato i nostri residui confederali, la federalizzazione dell’Europa, cioè la sua maggiore unione, è stata un processo segnato dalla necessità storica. E non è inopportuno in questo caso il parallelismo con il processo federativo degli Stati Uniti, non solo con il suo momento hamiltoniano, ma anche con lo stesso New Deal, come momento costituzionale centralizzatore in un contesto di crisi e incertezza sociale.

Potremmo anche dire che, in questo momento, la necessità di avere una costituzione o di attivare il mito del potere costituente è stata sostituita da un bisogno più immediato, quello di difendere la costituzione materiale che definisce l’identità dell’Unione attraverso i suoi trattati. Ed è in questo contesto difensivo, senza dubbio più esplicito dall’invasione russa dell’Ucraina, che la conclusione apodittica sulla mancanza di legittimità delle istituzioni e del diritto dell’Unione appare più superficiale. E questo non solo per ciò che implica in termini di disdegno della propria legittimità democratica, diciamo ibrida, a cui risponde anche il sistema di potere sui generis europeo, ma anche perché, in un contesto d’irrazionalità politica e populismo, disprezza la legittimità stessa che offre al sistema, come ci ha insegnato Pierre Rosanvallon, la tanto denigrata tecnocrazia sovranazionale a partire dal suo impegno all’imparzialità.

Europa come nemesi

In quel Congresso della Pace del 1849, anche il poeta Victor Hugo profetizzò che “arriverà un giorno in cui gli Stati Uniti d’America e gli Stati Uniti d’Europa, posti uno di fronte all’altro, si tenderanno la mano al di sopra dei mari, scambiandosi i loro prodotti, il loro commercio, la loro industria, le loro arti e i loro geni”. Non c’è bisogno d’insistere sul perché non siano tempi propizi favorevoli per la realizzazione di tale profezia. È innegabile che la rottura del legame liberale e cosmopolita, ma anche economico e geopolitico, con gli Stati Uniti abbia una dimensione esistenziale per l’Europa. Al contempo, di fronte a un progetto anticosmopolita e estraneo a qualsiasi ideale di ragione pubblica, è più semplice capire la profondità della nostra identità politica comune, nonostante ora siamo anche più consapevoli della sua fragilità.

Poco dopo la fine della prima guerra mondiale, il poeta Paul Valéry scrisse La crisi dello spirito, una riflessione politica sull’Europa che iniziava con queste parole: “Ora sappiamo che le civiltà sono mortali”. Tenendo conto del fatto che questa diagnosi risale a più di cento anni fa, alla tendenza al necrologio della civiltà europea si potrebbe rispondere con quella frase attribuita a Mark Twain secondo cui le voci sulla sua morte sono state decisamente esagerate. In ogni caso, ciò che oggi deve affrontare la sfida della sopravvivenza non è la civiltà europea in astratto, ma la sua concretizzazione come unione politica e giuridica. E la novità è che ora l’Europa, come Unione, non è alleata ma nemesi della prima democrazia costituzionale. Come sottolinea Sloterdijk, l’Europa è sempre più l’altro mondo o il resto del mondo, con grande rammarico della sua utopia cosmopolita.

In ogni caso, questo bagno di realtà serve, non solo a far sì che gli europei recuperino un certo interesse per sé stessi, ma anche a mettere in luce la trivialità di coloro che, a destra e a sinistra, dal loro nazionalismo sovranista proclamano di voler rendere di nuevo grande l’Europa sottomettendola al miglior offerente. Con l’Europa vista come nemesi dall’esterno, l’antieuropeismo interno scopre la sua realtà profondamente vassalla, mentre la sovranità e l’identità degli Stati europei, la loro capacità di decidere, appaiono palesemente legate alla possibilità di affermare la sovranità dell’Unione stessa. Il momento che sta attraversando l’Europa è faticoso, ma da esso impariamo qualcosa di molto importante: che il patriottismo europeo è anche il modo di difendere la nostra piccola patria. (Public Policy)

@VVzquez

* pubblicato originariamente su Letras Libres. Con il supporto di Open Society Foundations

(foto cc Palazzo Chigi – la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, accoglie a Roma il presidente del Consiglio europeo, António Costa).