di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – Se Giorgia Meloni non avesse vinto così largamente le elezioni politiche, fuori e dentro la stessa coalizione del centro-destra (dove i termini “centro” e “destra” vanno purtroppo intesi secondo un’equivoca e incorreggibile accezione italiana), oggi l’Italia non avrebbe neppure un Esecutivo in grado di garantire il minimo sindacale del sostegno politico-militare al Governo di Kiev. Visto che il successo del cosiddetto Terzo polo non era manifestamente tra le opzioni possibili, qualunque altro risultato avrebbe comportato la formazione di maggioranze in cui il peso politico e numerico di partiti (con rispetto parlando) “pacifisti” sarebbe stato determinante.
Se avesse vinto (cosa molto improbabile) la coalizione lettiana o se (cosa teoricamente possibile) avesse “non vinto” quella meloniana e si fosse potuta comporre una maggioranza Letta-Conte-Fratoianni-Bonelli, l’Italia sarebbe finita immediatamente in zona Orban, chiamandosi salomonicamente fuori dalla contesa delle parti, con un putunismo appena camuffato dal birignao diplomatichese della sinistra interna e esterna al Pd e dei post-grillini. Se pure avesse vinto il centro-destra, ma i rapporti di forza tra Meloni e i forza-leghisti di Salvini e Berlusconi non fossero stati così chiaramente a favore della prima, le parole dal sen fuggite del leader di FI contro Zelensky e gli avvertimenti complici dei leghisti sulla pace necessaria e purtroppo sempre più lontana avrebbero portato allo stesso risultato. Quindi – paradossi della storia – a salvare l’Italia da una deriva e da una vergogna orbaniana è stata una politica, che nel corso degli ultimi anni non aveva avuto alcun problema ad esibire grandi intese con il leader ungherese: comprese le accuse all’Ue di pregiudicare per un eccesso di allineamento atlantista una possibile pace con Putin e la denuncia delle “folli sanzioni” inflitte alla Russia dopo l’invasione del Donbass e l’annessione della Crimea.
Meloni sembra in pieno “momento Zelensky”, in un duplice senso. In primo luogo è schierata in modo inequivoco dalla parte del presidente e della resistenza ucraini, avendo abbandonato i cerchiobottismi e i cripto-putinismi del periodo 2014-2022, anche se un ruolo determinante in questo riallineamento potrebbero averlo avuto la necessità di legittimazione internazionale di una leader sorvegliata speciale e le pressioni dei nazionalisti polacchi di Diritto e Giustizia, storici alleati di FdI e incondizionati sostenitori dell’Ucraina.
In secondo luogo, Meloni ricorda Zelensky perché, proprio come il presidente ucraino, alla prova del potere e della guerra sembra avere acquisito uno standing di cui non la si sarebbe creduta capace. Questa considerazione vale sul principale punto dell’agenda politica euro-atlantica, cioè il contenimento del nichilismo imperialista della Russia e del possibile decoupling economico-strategico dell’ordine globale: pericolo che gli effetti a cascata dell’aggressione dell’Ucraina portano con sé, visto il ruolo equivoco della Cina di Xi Jinping nel fiancheggiamento e sfruttamento dei disegni putiniani.
Dunque, al di là di tutto, evviva Meloni. Per molti versi, la maturità istituzionale e il cambiamento del presidente del Consiglio sembrano emergere anche sul piano europeo, con un approccio meno sabotatorio di quanto si sarebbe potuto immaginare, anche se pure in questo caso potrebbe avere contato un fattore esterno. Il neo-europeismo della leader sovranista potrebbe essere la conseguenza dell’esposizione italiana alle decisioni della Commissione e della Bce. L’Italia non avrebbe oggi né politicamente, né economicamente il “fisico” per minacciare sconquassi a Bruxelles. Dunque, malgrado alcuni segnali, che sono tanto concreti quanto eloquenti, forse è ancora un po’ presto per concludere che Meloni è diventata “un’altra persona” e che ha rottamato ideologia e frequentazioni sovraniste a favore di un nazionalismo tutto sommato compatibile con un liberal-conservatorismo mainstream. È abbastanza evidente che mantiene un doppio registro, continuando anche a spingere propagandisticamente sui temi classici della retorica sovranista.
Il suo partito, in Italia, non parla affatto una lingua nuova rispetto a quella che ha portato FdI a sfondare il muro del 30% dei consensi. Il melonismo, più che essere cambiato, si è scisso. L’agenda politica e quella di governo sono tenute separate. Più che di un’evoluzione, si tratta di una dissociazione destinata, prima o poi, a fare emergere contraddizioni oggi prudentemente dissimulate, ma pronte ad esplodere. Meloni non può ragionevolmente sperare di conservare a lungo la botte piena di una solida credibilità internazionale e la moglie ubriaca di un perdurante (e magari crescente) consenso nazionalista. Si pensi al suo disegno storicamente più ambizioso e apertamente dichiarato, quello di spostare alle elezioni del 2024 l’asse della maggioranza europea dalla grande coalizione popolare-liberale-socialista a quella di un centro-destra popolar-sovranista. Anche solo per avvicinare la maggioranza assoluta dei seggi all’europarlamento Meloni avrebbe bisogno di portare in dote al leader del Ppe Weber (ammesso e non concesso che Weber consenta al matrimonio) non solo i polacchi di Diritto e Giustizia e gli spagnoli di Vox (che fanno capo ai Conservatori e riformisti europei, guidati dalla leader di FdI), ma anche i lepenisti francesi, i tedeschi di Alternativa per la Germania, gli ungheresi di Fidesz e tutti gli altri gruppuscoli della destra sovranista e cripto-fascista del continente.
Il piano Meloni per l’Europa non porta all’istituzionalizzazione della destra sovranista, ma alla capitolazione del mondo popolar-conservatore alle istanze nazionaliste. E tutto questo, posto che mai avvenga, oltre ad avere conseguenze ideologiche ne avrebbe di pratiche: in primo luogo il sabotaggio o pervertimento delle regole del mercato interno e della prospettiva della gestione comune dei principali dossier politici europei. Nella sostanza, tutto quello che il Governo Meloni oggi chiede per l’Italia all’Ue – dalla gestione comune del fenomeno migratorio, al cambiamento della governance economica in un senso espansivo (a partire da più debito comune, dopo la svolta del Pnrr e di una maggiore capacità fiscale per il bilancio Ue) – se mai il suo disegno andasse in porto sarebbe contrastato tanto dalla coalizione che Meloni pensa di costruire a Bruxelles, quanto da quella che ha costruito e guida a Roma. Per la prima sarebbe impossibile anche solo pensare di derogare dalle regole di Dublino o di spingere sull’acceleratore di una maggiore spesa europea, a vantaggio della “cicala” italiana. Per la seconda – si pensino alle polemiche sul Mes come strumento surrettizio di sorveglianza fiscale – sarebbe impossibile corrispondere alle cessioni di sovranità necessarie per propiziare davvero una riforma della governance europea in senso di fatto federale: termine che mai Meloni userebbe, ma che designa con precisione la cornice istituzionale di tutto ciò che l’Italia “chiede all’Europa”.
La sproporzione tra le pretese e le disponibilità, tra quanto si vuole avere e quanto non si vuole pagare è la cifra ideologica più caratteristica del consenso sovranista, che Meloni non sembra troppo intenzionata a contraddire: tutt’al più a moderare nelle forme, non a sfidare nella sostanza. Insomma, se si può dire che Zelensky, davanti ai carrarmati russi, è diventato davvero un altro politico è troppo presto per dire che Meloni, di fronte alla responsabilità del governo, è diventata davvero un’altra Giorgia.
@carmelopalma
(foto cc Palazzo Chigi)