di Lorenzo Castellani
ROMA (Public Policy) – Nel mezzo della crisi del Covid-19 quattro rischi prevalenti pendono sul Governo Conte.
Il primo è quello sanitario. Un rischio fronteggiato fino ad ora dal Governo con risultati altalenanti. La gravità della situazione epidemica è stata inizialmente sottostimata, ci sono stati errori di comunicazione e nella catena di comando, una querelle eccessivamente lunga con le regioni sulle politiche da adottare, ritardi nell’approvvigionamento. Tuttavia, il sistema sanitario non è collassato, almeno a livello nazionale; c’è stata una rapida riorganizzazione ed espansione delle terapie intensive; le misure di lockdown hanno contenuto l’espansione dell’epidemia al centro e al sud; la comparazione con gli altri Paesi occidentali non è così impietosa rispetto a quanto non sembrasse ad inizio epidemia. Quanto questa gestione sia merito o colpa del Governo, delle regioni, delle aziende sanitarie locali, della società italiana lo accerteranno gli storici del futuro. Rispetto agli scenari sanitari di qualche settimana fa però, non è andata peggio di quanto molti esperti prevedevano. Ora il Governo dovrà temperare l’urgenza della riapertura con la cautela necessaria per evitare nuovi focolai.
La chiusura dell’Italia, però, ha aperto ad un secondo grave rischio per l’Esecutivo, quello dell’indebolimento della struttura del residuo potere italiano. C’è stato un momento in cui le principali aziende finanziarie, assicurative e strategiche italiane quotate in borsa sono state ad un passo dalla scalata di gruppi stranieri, spesso riconducibili a paesi europei in competizione con l’Italia. Il Governo, su forti pressioni del Copasir, ha recepito una golden power rafforzata per difendere il “sistema Italia”. Da questo punto di vista, lo Stato profondo italiano è stato in grado di reagire tempestivamente e di suggerire alla politica una linea d’intervento emergenziale. La perdita di attori chiave del sistema economico sarebbe forse stata più grave della depressione economica in sé, perché avrebbe avuto impatti geopolitici molto considerevoli. In altre parole, il potere negoziale “esterno” dell’Italia sarebbe stato ancora più ridotto una volta persa l’autonomia finanziaria e strategica. Fortunatamente, almeno per ora, questo fosco scenario è stato evitato.
Tuttavia, il lockdown prolungato, che ha coinvolto anche il settore commerciale ed industriale, ha generato un terzo rischio, cioè quello della crisi economica. Il Governo Conte rischia, tra qualche mese, di restare impantanato all’interno di una recessione lunga, dato che gli strumenti di politica economica per un Paese indebitato e debole come l’Italia restano limitati. Inoltre, la maggioranza per la formazione delle sue constituency è più incline a tutelare dipendenti pubblici, pensionati e disoccupati, piuttosto che imprese, dipendenti privati e partite Iva. Esiste che il rischio che una parte di Paese, quella più produttiva e meno garantita, sia travolta dalla crisi alimentando ulteriormente il malcontento sociale e politico. C’è la possibilità che il Paese perda un’altra fetta della sua classe media, con una conseguente ulteriore polarizzazione della società e dello spettro politico.
Questo terzo rischio può essere affrontato solamente attraverso la gestione del quarto, ovvero la capacità negoziale e strategica sui tavoli di Bruxelles. La bozza di accordo dell’Eurogruppo dimostra come lo status quo continui a prevalere in Europa. Il pacchetto negoziato è scarno e leggero, specie se lo raffrontiamo a quello statunitense, e la principale proposta del Governo italiano, la mutualizzazione del debito attraverso gli Eurobonds, è stata respinta. Se gli equilibri non cambieranno nelle prossime settimane, ed è improbabile, ancora una volta il principale vettore per la gestione della crisi sarà la Banca centrale europea.
L’Italia, che sarà probabilmente l’economia più colpita dagli effetti del virus, rischia di pagare per lungo tempo la sua debolezza economica e politica. La scarsità di risorse per limiti di finanza pubblica e l’assenza per il momento di un ambizioso piano di riforme da parte del Governo, aumenta l’impressione di un Paese con scarsa potenza di fuoco ed una ridotta capacità di gestione della crisi. L’esecutivo dovrebbe dare un segnale vitale a mercati e partner europei prendendo l’iniziativa sul piano programmatico. Quali riforme economiche siano prioritarie per il Governo per rilanciare l’economia al momento non è chiaro. Presentarsi, come già accaduto spesso in passato, alle trattative giocando di rimessa non è un buon segnale sia per i negoziatori degli altri Stati che per i cittadini del proprio Paese. Si alimenta l’impressione che l’Italia non riesca a muoversi autonomamente sul piano programmatico senza che prima vi sia stata una qualche risoluzione a Bruxelles. Di eccesso di passività, però, si può morire.
Il rischio per Conte, se la crisi dovesse aggravarsi, è quello di essere costretto a fare riforme impopolari per evitare che la finanza pubblica vada alla deriva e di trasformarsi in un “nuovo Monti”, ma senza nemmeno un programma di riforme come quelle varate nel 2011. A quel punto il Governo si troverebbe a subire, e non a dominare, le decisioni da prendere, che sarebbero vissute come obtorto collo da una maggioranza già fragile. L’eventualità che il presidente del Consiglio si trasformi in una sorta di capro espiatorio nei prossimi messi non è da scartare. A quel punto tutte le strade politiche ritornerebbero aperte. (Public Policy)