Sovranismo tecnico: la strategia di Meloni e i ministri dello schermo

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di Carmelo Palma

ROMA (Public Policy) – Nel 2013, dieci anni fa, Bce e istituzioni europee detenevano meno del 5% dei titoli del debito pubblico italiano, pari al 6,4% del Pil. Dieci anni dopo, alla fine di quest’anno, le stime prevedono che il debito italiano “in mano all’Europa” sarà pari quasi al 29% di quello complessivo, per un valore pari al 42,1% del Pil. Il che significa che la dipendenza finanziaria dell’Italia dal sistema europeo è aumentata di circa sei/sette volte in un decennio.

L’Italia politicamente sovranista e anti-europea è un’Italia sempre meno sovrana e sempre più dipendente dall’Ue in termini economici e anche gli oltre 190 miliardi del Next Generation Ue destinati al nostro Paese, prima che un’enorme opportunità, costituiscono il suggello ufficiale dell’uscita della “seconda manifattura del continente” – come i sovranisti stentoreamente rivendicano – dal novero dei Paesi forti.

La fortuna dei sovranisti italiani e la disgrazia della sovranità dell’Italia hanno seguito la stessa traiettoria e obbedito, nella sostanza, alle stesse ragioni. Il sovranismo, che, come il populismo, ha messo in discussione tutti i capisaldi della costituzione economica europea – dalla disciplina finanziaria, alle regole del mercato comune, al ruolo della politica monetaria – ha istituito un universo politico parallelo, che ha sovvertito i rapporti reali tra le cause e gli effetti del declino italiano, presentandolo come un processo di usurpazione politica e spoliazione economica in qualche modo programmata e teleguidata da Francoforte e Bruxelles.

Dal 2011 – dopo la crisi dello spread, denunciato dalla destra sovranista come un complotto contro l’Italia e un golpe contro il Governo Berlusconi – non è più praticamente esistita una destra politica diversa da quella sovranista, cioè da un pensiero ideologicamente antagonistico a quello del cosiddetto mainstream europeo. La pandemia e poi in seguito la guerra, che hanno dimostrato la flessibilità e la prontezza della macchina europea a ricorrere, in emergenza, a soluzioni non convenzionali, hanno mostrato un volto dell’Ue diverso dalla caricatura della tecnoburocrazia ottusa e immobilistica così cara ai sovranisti, ma da questa dimostrazione essi non hanno appreso la lezione della piena convertibilità del rigore in solidarietà e della differenza tra il sostegno ai paesi in difficoltà e l’incentivo al loro azzardo morale, bensì hanno tratto la morale della dimostrata revocabilità, senza particolari conseguenze negative, delle regole del patto di stabilità e del mercato comune e dell’indipendenza della Bce.

Ora che la destra sovranista ha conquistato il Palazzo dovrebbe fare un uso conseguente della stanza dei bottoni, no? Anzi, ora che si approssima a ricevere l’incarico per formare un nuovo Esecutivo, Meloni dovrebbe dar voce a istanze di alternativa radicale rispetto alle posizioni sostenute dal campione dell’Europa delle banche, Mario Draghi? In teoria dovrebbe, in realtà la leader di FdI sembra fare esattamente il contrario ed essere impegnata in una dimostrazione preventiva di serietà, che passa proprio da una non rivendicata, ma esplicita continuità con il Governo precedente, al punto da avere saggiato la disponibilità di ministri uscenti – Franco, Cingolani – e da affannarsi pubblicamente a cercare ministri tecnici per tutti i dicasteri più significativi e esposti alle maggiori tensioni: Economia, Energia, Interni, Salute. Anche l’alternativa prospettata al tecnico ancora mancante per il ministero di via XX Settembre (il leghista Giorgetti) ha una natura, a suo modo, tecnica. Oltre a compromettere la Lega nella gestione dei rapporti economici con l’Ue, sarebbe una sorta di cartonato di Draghi, di prova visibile di continuità col suo Esecutivo sul principale dossier di governo.

Perché sta avvenendo tutto questo? Ci sono alcune ragioni congiunturali che spingono Meloni in questa direzione draghiana. La prima è la durissima polemica del presidente italiano sul tetto al prezzo del gas, che, pur essendo fondata su presupposti esattamente contrari a quelli della vulgata sovranista, concede a Meloni la possibilità di offrire qualcosa di anti-Ue e anti-tedesco al suo pubblico e, paradossalmente, di conservare un filo di coerenza con gli altri partiti sovranisti europei, anch’essi scatenati contro il veto (probabilmente destinato a cadere) della Germania e dell’Olanda. La seconda ragione è che tecnici di rilievo e di fama, conosciuti e apprezzati a Bruxelles, contribuirebbero a rimediare a un deficit di legittimazione, che Meloni non ha maturato per il particolare e malevolo pregiudizio dei suoi nemici, ma per posizioni storicamente sovrapponibili a quelle di Victor Orban. La terza ragione è che, pur essendo Fratelli d’Italia un partito più solido e strutturato della media dei partiti italiani, ha una classe dirigente complessivamente priva di esperienza di governo nazionale. La ricerca, prima delle elezioni, di candidati con un passato autorevole – Tremonti, Pera, Nordio – è stata anche il segno di questa consapevolezza. Quindi la ricerca di figure tecniche per incarichi di vertice, non necessariamente ministeriali, nella struttura di governo può aiutare ad affrontare questo deficit di esperienza e competenza. In quarto luogo, la ricerca di ministri tecnici autorevoli aiuta a tenere alta l’asticella anche rispetto agli altri partiti della coalizione e a giustificare le esclusioni di candidati molto raccomandati, ma assai poco presentabili.

Però, tutte le ragioni fin qui espresse mi sembrano secondarie rispetto a quella più fondamentale e grave, che spinge Meloni a cercare, fino ad oggi con poca fortuna, ministri tecnici in tutti quei mondi – banche centrali, banche commerciali, Cassa depositi e prestiti, vertici del Mef e della Ragioneria dello Stato – che dovrebbero rappresentare quanto di più lontano dalla sua persona e dal suo pensiero. La ragione fondamentale – e ripeto: molto grave – riguarda proprio la natura del sovranismo e il pervertimento dei processi democratici che esso comporta. Proprio perché “in basso” il sovranismo è una forma di dissociazione tra la politica e la realtà, “in alto” (dove adesso si trova Meloni) diventa giocoforza un esercizio di dissimulazione e di doppiezza, dovendo quadrare il cerchio tra le aspettative e le possibilità e tra quanto non si può rinunciare a essere e quanto si deve, più prosaicamente, provare a fare. Sui dossier su cui, presumibilmente, tutto ciò che è possibile non è diverso da ciò che c’è – bello o brutto che appaia – la scelta dei ministri tecnici, ampiamente annunciata da Meloni, risponde in primo luogo a questa esigenza di separare, anche simbolicamente, il campo della politica da quello che, paradossalmente, politica non dovrebbe più considerarsi, perché non se ne imputino gli esiti al capo dell’Esecutivo e ai partiti della maggioranza. L’Europa cattiva cessa di essere un obiettivo da abbattere politicamente e ridiventa una calamità naturale, di cui provare tecnicamente a padroneggiare e arginare gli effetti, senza potere agire sulle cause. L’obbligata doppiezza di un governo sovranista si articola così nella forma dello sdoppiamento dei ruoli tra politici e tecnici e della dissociazione delle responsabilità degli uni da quella degli altri. Dalla dissociazione alla doppiezza e dalla doppiezza alla dissociazione.

Prima, in campagna elettorale, si toglie la politica dalla realtà, poi, dopo le elezioni, si deve togliere la realtà dalla politica, riducendo quest’ultima a una sorta di rito orgiastico di eccitazioni e invasamenti, di delirio di vendetta e di angoscia di impotenza, di psicosi di massa e di fobia collettiva. Così i ministri dello schermo, i tecnici parafulmine, potranno almeno parzialmente isolare i politici sovranisti dalle saette del malcontento popolare e dalla riprovazione per la perdurante “dittatura dell’Europa”, che potrà nondimeno continuare a essere presentata come la giusta causa della ribellione popolare e come l’insuperabile alibi per tutte le promesse non mantenute. Se però è vero che il sovranismo si nutre delle sue stesse frustrazioni e dei suoi stessi fallimenti, è difficile pensare che anche le leadership sovraniste possano sopravvivere a esperienze di governo frustranti e fallimentari. La destra sovranista non è iniziata con Giorgia Meloni e non finirà certamente con lei. Ma l’ampia apertura di credito che il popolo sovranista le ha riconosciuto, come prima di lei a Salvini, difficilmente resisterà all’impressione che il suo “sovranismo tecnico” sia solo una tecnica di sopravvivenza e una forma di ipocrisia. (Public Policy)

@carmelopalma