Vincitori e vinti hanno una cosa in comune: l’emotività

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di David Allegranti

ROMA (Public Policy) – Il Governo Meloni sta per nascere tra mille difficoltà, anche nella composizione della squadra, tra equilibri di maggioranza da mantenere con gli alleati e il fiato sul collo dell’Europa.

Il contesto internazionale è denso di avversità, ci sono minacce nucleari a duemila chilometri da noi, c’è la crisi energetica, c’è l’inflazione galoppante, c’è il debito pubblico italiano che ci schiaccia e che non permette di fare scelte simili a quelle della Germania, che ha appena annunciato un piano da 200 miliardi di euro (il 5 per cento del suo Pil) per ridurre la spesa energetica delle famiglie.

In più, appunto, nessuno sembra intenzionato a regalare niente a Meloni, specie in Europa, dove si ripete insistentemente che la vigilanza sull’Italia e il nuovo Esecutivo sarà molto alta (non si vedono tuttavia gli immaginati e immaginari ritorni del fascismo, e anche nel racconto che diamo di noi stessi all’esterno ci dovrebbe essere più cautela, per evitare di diventare la macchietta di noi stessi).

Quel che colpisce di queste considerazioni è tuttavia la troppa emotività, persino nelle istituzioni europee. E l’emotività è in generale pericolosa, perché ci espone al rischio della manipolazione, vale per l’opinione pubblica e per la stessa comunità politica. Ma anche Meloni sembra saperlo, come si capisce dal messaggio inviato alla kermesse di Vox nel fine settimana: “Non siamo mostri, la gente lo capisce. Viva Vox, Viva Italia, viva Spagna, viva l’Europa dei patrioti”, ha detto. “Dagli alimenti alle materie prima ci siamo riscoperti deboli: quando noi conservatori denunciammo gli errori di un’Europa che si occupava di problemi secondari invece dei grandi temi strategici non lo facevamo perché populisti o nemici dell’Europa ma perché eravamo lucidi realisti e la storia ci ha dato ragione”, ha aggiunto. La vittoria, ha spiegato Meloni, “ci ha portato gioia ma grande responsabilità. In alcuni giorni abbiamo la possibilità di formare un Governo. Spero che in Spagna come in Italia e in Europa ci sia una maggioranza di cittadini che ci chiede di prenderci la responsabilità di governare: non lo possiamo fare da soli ma con compagni leali uniti contro la sinistra”. Sembra insomma esserci un certo ottimismo, carico però di senso di responsabilità, tra i vincitori.

E tra gli sconfitti? Anche lì abbonda l’emotività. I populisti sono razionalmente pronti a guidare elettori emotivi, ma per il momento è un problema che riguarda sopratutto il Pd, che è alle prese con le proprie difficoltà esistenziali (c’è persino il rischio che il M5s superi il Pd nei sondaggi) e i suoi rapporti tra alleati.

Dalle parti dei dem è grande la confusione sotto il cielo, per parafrasare Mao, ma la situazione non è eccellente. Come noto, Enrico Letta ha annunciato che non si presenterà al prossimo congresso e giovedì scorso ha convocato una direzione nazionale, durata ore, per avviare il percorso verso la scelta del nuovo segretario. Una tra le tante assurdità delle ultime settimane: le non dimissioni di Letta, che ricordano la non sconfitta di Pierluigi Bersani. Ma non si capisce a che titolo un segretario (non) dimissionario spieghi come dovrebbe riorganizzarsi il Pd. Anche perché avrebbe potuto e dovuto farlo nell’ultimo anno e mezzo. Per tutta risposta, si sono scatenati gli aspiranti segretari del Pd (e c’è da pensare che tra poco saranno più del 19 per cento dei voti presi domenica 25 settembre). Ci sono le auto candidature e le quasi auto candidature (Paola De Micheli, Stefano Bonaccini, forse pure Dario Nardella). Poi ci sono le papesse straniere come Elly Schlein, cosiddetta indipendente eletta nel Pd. Una parte della sinistra la vorrebbe alla guida, perché se la destra ha una donna leader bisogna che pure la sinistra ce l’abbia (un po’ come quando a Napoli si sceglievano i prefetti come candidati a sindaco).

In campo dunque ci sono già una selva di nomi per un partito senza più identità, senza più capacità di affrontare i problemi nella propria complessità sociale, economica, persino culturale. Surclassato nel Mezzogiorno dal M5s, battuto nazionalmente dal partito di Meloni, che prende il 26 per cento in maniera omogenea, ridotto persino nelle cosiddette ex regioni rosse, un tempo granaio sicuro per la sinistra.

Forse neanche il congresso basterà al Pd, che ha dato per tutta la campagna elettorale l’idea di un partito in dismissione, già in procinto di accettare l’inevitabile sconfitta (c’è persino chi ne chiede lo scioglimento, come i firmatari di un appello che invocano la nascita di una “cosa” con i 5 stelle, da Domenico De Masi a Tomaso Montanari, a Rosy Bindi). Il Pd ha pagato il mancato accordo con Carlo Calenda, come testimoniano i flussi di voto al Terzo polo ai dem. Secondo una ricerca dell’Istituto Cattaneo che analizza il voto alle elezioni politiche del 2018 e alle europee del 2019, “la quota  di voti di Calenda che arriva da questa fonte oscilla tra circa un terzo a circa la metà, a seconda della città considerata”.

Come il Pd intenda fare per recuperare i voti perduti e andati al Terzo polo è un mistero per il momento insondabile. Così facendo però il Pd perde il consenso di un elettorato che aveva condiviso l’avventura renziana dentro i dem, salvo non apprezzare il salto e la scissione e la nascita di Italia viva. Quel che sembra mancare è un serio dibattito che vada oltre i diritti e che si concentri su lavoro ed economia, due questioni piuttosto urgenti non solo dei prossimi mesi ma degli ultimi anni. Ci sono diversi aspetti contingenti di questa crisi che si collegano ad altre questioni strutturali. Per riassumere: il Pd, così com’è, sembra aver perso la sua funzione politica. Anche perché tra le funzioni principali c’è stata quella del governismo a ogni costo. Ma un partito che esiste solo in funzione del proprio ruolo di gestione del potere è destinato a perdere il contatto con la realtà.

L’emotività attraversa anche il campo dei vincitori. Per esempio sulla questione dei tecnici al Governo. Problema antico, quello del rapporto fra tecnica e politica. Se però ci saranno tecnici d’area tanto meglio; il governo resterà comunque eminentemente politico, perché il risultato delle elezioni è stato chiaro. E gli esperti servono, specie laddove il centrodestra non ha personalità specifiche che provengano dai partiti. Su questo Meloni è stata cristallina, soprattutto nei confronti degli scalpitanti alleati. Vediamo se effettivamente la probabile futura presidente del Consiglio riuscirà a tenere a bada le richieste di chi vorrebbe un Governo tutto fatto di politici.

Gilles Gressani, direttore di Le Grand Continent, ha parlato a proposito di Meloni e delle sue scelte di tecno-sovranismo, un “prodotto della sintesi tra l’integrazione dei vincoli esterni e delle logiche tecnocratiche interne, l’adesione al quadro dell’Alleanza atlantica anche nella sua dimensione geopolitica europea, con allo stesso tempo un’insistenza evidente su valori estremamente conservatori e istanze neonazionaliste”. A proposito di tecnica e politica, l’impressione è che nessun partito possa avere concretamente l’ambizione di essere decisivo quanto vorrebbe, men che meno i leader. Leadership e partiti sono fortemente minoritari rispetto alle decisioni che vengono prese altrove, in virtù anche dei citati vincoli esterni. Per sorvolare sui vincoli interni. (Public Policy)

@davidallegranti