di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – L’effetto moltiplicatore della mobilitazione digitale ha reso il referendum uno strumento capace di esprimere, nello stesso tempo, il massimo della potenza, con la possibilità di catalizzare un consenso istantaneo di centinaia di migliaia di persone in pochissime ore e il massimo dell’impotenza, per l’impossibilità di convogliare una partecipazione elettorale sufficiente a garantire la validità della consultazione, che la Costituzione fissa alla metà più uno degli aventi diritto al voto.
C’è da credere che il legislatore tra il 2020 e il 2021, sotto il Governo Conte II e quello Draghi (articolo 1, comma 341 della legge 178/2020 e articolo 38-quater del decreto legge 77/2021), abbia pensato di autorizzare la raccolta firme online via Spid su una piattaforma pubblica e gratuita, proprio perché sapeva che qualunque iniziativa referendaria sarebbe stata, in ogni caso, fine a sé stessa, che la sua forza si sarebbe infranta contro il muro del quorum e che la prevedibile inflazione di referendum avrebbe annullato il valore e neutralizzato la funzione politico-costituzionale dell’istituto.
Infatti il legislatore, composto da partiti presenti in Parlamento e per lo più esonerati dall’obbligo di raccogliere le firme per ripresentarsi alle elezioni, si è ben guardato dall’autorizzare la firma digitale anche per la sottoscrizione delle liste di forze politiche che non godono di questo privilegio, proprio perché in questo caso, a protezione del Palazzo e dei suoi abitanti, non c’era un ostacolo di fatto insormontabile come il quorum referendario.
Dunque, grazie alla piattaforma digitale l’Italia non è affatto entrata nell’età dell’oro della democrazia diretta, ma anche il referendum è finito nella trappola in cui è imprigionata la democrazia rappresentativa, dove tutto sembra facile, eppure è irrealizzabile e nessun obiettivo è precluso, ma nessuno è davvero raggiungibile. La gente vota e non succede nulla di quello per cui ha votato. La gente firma e non succede nulla di quello per cui ha firmato. Così anche un istituto che idealmente dovrebbe rappresentare un contro-potere effettivo è diventato una sorta di “sportello reclami”, in cui presentare cahiers de doléances destinati a rimanere senza risposta e ad accrescere la sfiducia e la tensione anti-sistema.
Gli effetti che la polarizzazione social ha prodotto sui processi politici non si ferma ovviamente al mezzo referendario e l’aspettativa di un risultato di semplice e trasparente immediatezza ha aperto la strada alle distopie totalitarie dell’autogoverno a portata di click dell’uomo-massa digitale. È una strada che porta indifferentemente (e spesso contemporaneamente) a devozioni leaderistiche e a frenesie partecipative che i referendum, mai così facili a farsi e difficili a vincersi, rendono ancora più accese e frustrate e quindi ancora più servibili per il brokeraggio politico populista.
Paradossalmente, mai come oggi le ordalie referendarie rischiano di diventare funzionali non al cambiamento politico dell’Italia, ma all’alienazione politica degli italiani e di allontanare la riforma che sola potrebbe riabilitare lo strumento: portare il quorum a un livello reale, pari al 50% di quanti votano alle elezioni politiche, non degli elettori tutti, di cui ormai quasi uno su due non vota più neppure per il rinnovo del Parlamento nazionale. Facendo un esempio concreto: alle ultime elezioni per la Camera (2022) hanno votato poco più di 30 milioni di italiani, tra la circoscrizione nazionale e quella estera, su quasi 51 milioni di aventi diritto, quindi poco più del 60%. Alle ultime elezioni europee la partecipazione elettorale è stata del 48%, sotto il livello del quorum referendario.
È del tutto evidente che per ripristinare la servibilità del referendum occorrerebbe portare il quorum a un livello raggiungibile – la metà più uno dei votanti alle precedenti elezioni politiche – per impedire i giochi di sponda dei fronti del No con l’astensionismo passivo di settori sempre più ampi di elettorato. Ma è altrettanto evidente che questo comporterebbe una corrispondente riqualificazione costituzionale dell’istituto referendario, che dalla originale natura abrogativa di una legge o di alcune norme di una legge si è dilatato fino a rappresentare – si pensi ai referendum elettorali – uno strumento di legislazione sussidiaria diretta, in cui la piattaforma digitale pubblica assumerà le sinistre sembianze di una casaleggiana “terza camera” della Repubblica e di crogiuolo di frustrazioni e disagi senza sbocco. (Public Policy)
@carmelopalma