di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – Qual è la ragione per cui, poche ore dopo l’accusa del segretario del Consiglio di sicurezza Patrushev: “C’è l’Ucraina dietro l’attacco a Mosca”, tutti i principali giornali italiani hanno regalato l’apertura delle proprie home page alla guerra ibrida del Cremlino? Perché hanno trattato la notizia come se questa davvero rivelasse le possibili responsabilità di Kyjv e non la necessaria strategia di Putin, che ha bisogno di riversare nella guerra all’Ucraina il dividendo di quei morti, mietuti con una facilità imbarazzante nel cuore della capitale russa? Hanno titolato tutti allo stesso modo e hanno replicato il registro narrativo imposto da Mosca, senza distinguibili differenze tra le testate sulla carta schierate con il fronte euroatlantico in difesa dell’Ucraina o con quello sedicente pacifista e anti-bellicista.
Gli 007 russi: terroristi addestrati da Kiev, Usa e Gb coinvolti. (Corriere della Sera) Attacco a Mosca, i servizi segreti russi: “Terroristi addestrati dagli ucraini, coinvolti Usa e Gb”. (Repubblica) Strage a Mosca, Patrushev accusa: “È stata l’Ucraina, certo”. I servizi russi: “Terroristi addestrati da Kiev, Usa e Londra coinvolti. Ci sarà rappresaglia (La Stampa) Mosca, gli 007 russi: “Terroristi islamici aiutati da Kiev, pronta la rappresaglia” (Libero) Gli 007 di Putin: “I terroristi addestrati da Kiev, coinvolti anche Usa e Regno Unito” (Il Giornale) L’accusa dei servizi segreti russi per la strage a Mosca: “Kiev ha addestrato gli attentatori, coinvolti Usa e Uk” (Il Fatto quotidiano).
Perché si sono fatti tutti zelanti corrieri di una tipica “misura attiva”, cioè di una bomba informativa a frammentazione, che la libera stampa avrebbe il compito di disinnescare, non di fare deflagrare con un’accresciuta potenza di fuoco? La prima e principale ragione, che contiene tutte le altre, è che, poveracci, questi giornali devono campare. Le piattaforme informative digitali non appartengono più all’economia della conoscenza, ma a quella dell’attenzione. Dunque le cosiddette notizie non sono più un prodotto dell’informazione, ma una infrastruttura della pubblicità. Da questo punto di vista la propaganda politica e il clickbaiting commerciale si fondano sul medesimo presupposto. Non dovendo suscitare conoscenza, ma interesse, non mettono in discussione i bias, ma li incentivano nel gigantesco mercato di consumo della comunicazione digitale. Conquistare in pochi secondi l’attenzione di un lettore che sta sull’home page di un giornale con la stessa testa, cioè con le stesse riserve cognitive e aspettative emotive, con cui sta sui social network significa evitargli fastidiosi contropeli e farlo sentire a casa e in pace con le sue abitudini. Non bisogna disorientarlo e tanto meno sfidarlo. Semmai impressionarlo, con raccapriccio e meraviglia.
Per un insieme di ragioni che hanno a che fare con la corruzione economica, con l’alienazione ideologica e con il cinismo affaristico di una classe dirigente, per cui l’ostpolitik filo-russa, pure durante la Guerra Fredda, è stata la declinazione internazionale della domestica teoria dei due forni, al consumatore digitale medio del Belpaese suona gradita e professionale un’informazione normalizzata e neutrale sulla politica del Cremlino – per vent’anni abbiamo detto che Putin non era Hitler, come potrebbe esserlo mai diventato a spese degli ucraini? – e sospetta di faziosità e di partigianeria quella che ne parla per ciò che è e non per ciò che l’Italia politica ha sperato o finto per vent’anni che fosse.
Come si fa a dire, adesso, che la dottrina strategica del Russkiy Mir (il mondo russo) è la riedizione post-sovietica della teoria nazista del Lebensraum (spazio vitale) e che le operazioni militari speciali del Cremlino non sono reazioni magari sproporzionate e tuttavia “naturali” all’incombenza di una minaccia reale o percepita, ma sono una guerra di aggressione permanente per vendicare l’affronto della disfatta della Russia zarista e di quella comunista e per ripristinarne l’unità politica e il primato storico sulle macerie delle tante nazioni uscite, dopo la caduta dell’Urss, dall’orbita di Mosca? Come si fa a raccontare che Putin, forte del lungo credito di autocrate razionale e di interlocutore imprescindibile, odia gli ucraini per la stessa ragione per cui i nazisti odiavano gli ebrei, cioè perché l’odio non è un sentimento individuale e collettivo, ma una politica, un principio d’ordine e una ragione di Stato, per quanto alienato e allucinatorio ne sia il fondamento intellettuale e grottesco quello storico? Come si fa a dire che le accuse di Putin agli ucraini, le rivelazioni distillate dagli 007 dell’FSB, le indagini delle forze di polizia che tagliano e fanno mangiare le orecchie agli indiziati sono una macabra sceneggiatura della colpa ucraina e della rabbia russa, non qualcosa di cui si possa discutere come di una pista qualunque o di una spiegazione possibile? Non si può, infatti non si fa.
E non si può perché l’infotainment non può andare controcorrente, ma deve, per così dire, stare a servizio. Non può fare la guerra alla guerra informativa di Mosca, perché l’infotainment è pacifista. Infatti da due anni le trasmissioni televisive e le piattaforme mediatiche convocano battaglioni di omini verdi travestiti da liberi pensatori a spiegare le ragioni di Putin, in quella par condicio di guerra che fa ottimi ascolti, raccontando l’apologo del lupo e dell’agnello come un complesso dilemma geopolitico.
Superior stabat Putin, ma sentiamo le sue ragioni (e presto – ci possiamo contare – le confessioni dei terroristi al soldo dell’Ucraina, smascherati dai valorosi cekisti 4.0). Uno scenario diverso esigerebbe non solo dei giornalisti diversi, ma anche un’Italia diversa da quella appecoronata a Putin degli ultimi vent’anni. (Public Policy)
@carmelopalma