Twist d’Aula – Campioni europei, non basta dire che servono

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di Massimo Pittarello

ROMA (Public Policy) – Di recente è tornato a parlarne il ministro degli Esteri. “Credo si debbano creare dei campioni europei – ha detto Antonio Tajani – e per questo l’Europa deve cambiare le regole della concorrenza”, ha aggiunto riferendosi ai vincoli Ue che rendono difficile l’aggregazione dei soggetti industriali nazionali. E sicuramente c’è una questione di regole antitrust, ma non solo. C’è anche un gioco di veti incrociati tra gli Stati membri, dove ognuno è geloso del proprio orticello. E poi c’è un problema, forse perfino più grande, di mancanza di direzione. Non basta dire che servono campioni europei, bisogna capire cosa devono fare, che ruolo devono avere. E sostenerli. Altrimenti la partita non si vince.

Solo per ricordare i casi più eclatanti. In Europa non esiste una compagnia aerea di bandiera e le alleanze (Iberia-British, per esempio) o le acquisizioni obbligatorie (Lufthansa-Ita) vengono portate a termine “nonostante” le politiche nazionali. Eppure, la controprova che l’Unione fa la forza esiste: per restare nei cieli, Airbus costruito a colpi di incentivi e sgravi, è in grado di competere con la statunitense Boing. Se si passa dal cielo al mare, invece, è stata bloccata la fusione tra Fincantieri e Saint-Nazaire. Per ciò che riguarda i treni, nel 2019 fu clamoroso lo stop di Bruxelles al matrimonio tra Alstom e Siemens. Nelle tlc la stessa mal applicata dottrina della concorrenza ha imposto una competizione sfrenata, con il risultato che le compagnie sono in difficoltà, licenziano i lavoratori e spesso scontentano i clienti provando a sottrargli anche i centesimi.

Nel frattempo, l’Europa è diventata terra di conquista di statunitensi (Facebook, Google, Apple) o cinesi (TikTok, Alibabà). Nell’automotive, Pechino detta legge sulle batterie e prova a insediare fabbriche in Ungheria. Tesla ha la leadership di vendita di auto elettriche. Proprio l’automobile dimostra che l’industria, da sola e senza indirizzo strategico, fa molta fatica. Oggi Stellantis riunisce una lunga serie di marchi (Fiat, Chrysler, Citroen, Peugeot, Jeep, Alfa, Maserati, Opel), eppure è in crisi esistenziale. Volkswagen ha attuato economie di scala prendendosi Audi, Skoda, Ducati (oltre a Porsche e Lamborghini, vabbè) ma è in difficoltà tanto da chiudere per la prima volta nella storia uno stabilimento in Germania.

Si potrebbero fare tanti esempi, nell’automotive come altrove, ma il punto è che Stati Uniti, Cina e gli altri player mondiali adottano sostegno pubblico e strategie definite per supportare i propri soggetti industriali. Al di là del capitalismo di Stato del regime cinese, anche nei “liberali” Stati Uniti, per esempio, ci sono una serie di atti semi-dirigisti, dall’Inflation Reduction Act al Chips Act, che vanno in questa direzione. Anche in Europa, quando per necessità o volontà si fissa un obiettivo, qualcosa si muove. In un settore chiave come quello della difesa, di fronte alla guerra in Ucraina, alla necessità di aumentare la spesa militare e a ragioni industriali e finanziarie, sono molte le operazioni di M&A e le partnership registrate in questi mesi.

Poi, naturalmente, bisogna evitare che i Governi nazionali, condizionabili dalle grandi imprese e sempre molti attenti al consenso, si mettano di traverso. Difficile in un Europa a trazione intergovernativa e non comunitaria. Prendete il settore finanziario. Fino a poco tempo fa le fusioni tra gruppi bancari dovevano passare il vaglio di Vigilanza e Antitrust. Negli ultimi mesi invece a mettere bocca sono gli Esecutivi nazionali, sia di destra che di sinistra. Possiamo riferirci all’irritazione del Governo italiano (di destra) sull’ops di Unicredit su Bpm, o al tentativo del Governo spagnolo (di sinistra) di fermare l’acquisizione di Banco Sabadell da parte di BBVA, o ancora al fastidio del Governo tedesco (di centrosinistra) per la scalata Unicredit su Commerzbank. Della serie, facciamo pure delle aggregazioni europee, ma non con le cose di casa mia.

Ecco, la prima necessità dell’Europa fu la MEC, la Politica agricola comune. Poi la CECA sul carbone e sull’acciaio. E da lì le fondamenta economiche di quella che diventerà l’Unione. Poi la (presunta) libera circolazione di merci, persone, capitali e servizi, che ha provato a estendere l’unità economica a un livello politico (con scarso successo). Oggi quello che resta incompiuto sia nella forma che nella sostanza, e di cui teoricamente c’è maggiore bisogno via via che nel mondo si affacciano colossi continentali (oltre alla Cina, l’India, il Brasile, il Sudafrica, il Messico, oltre a Russia e Stati Uniti), è la creazione di campioni industriali europei. Perché l’Europa politica potrebbe anche non funzionare, ma quella economica finora non è andata male. Bisogna solo capire se sarà mai possibile far questo passo avanti, qualificandosi per la Champions League. (Public Policy)

@m_pitta