di Massimo Pittarello
ROMA (Public Policy) – Qualcuno è ancora convinto che l’ascesa di Mario Draghi al Colle sia possibile, ma meno di qualche giorno fa. Considerate le capacità del personaggio, le sue connessioni europeiste e atlantiste non è da escludere che “alla fine andrà tutto bene”, come dice Giancarlo Giorgetti. Ci crede Luigi Di Maio. Si lasciano la porta aperta in molti. Raffaele Volpi, altro leghista di lungo corso con simpatie centriste, arriva a parafrasare il Papa: “stasera quando tornate a casa date una carezza ai vostri bambini, quella di Draghi”. Sarà, ma se è vero che non diventa presidente della Repubblica chi ha più voti, ma chi ha meno veti, bisogna anche ragionare sui tanti ostacoli di natura istituzionale, politica e, last but not least, personale e psicologica, che bloccano la camminata di Draghi da Chigi al Quirinale.
Partiamo proprio dalla componente caratteriale. L’attitudine di un banchiere centrale, che per prerogativa deve parlare ai mercati, è dire quello che si fa e fare quello che si dice. Quella di un politico, invece, un tantinello diversa: deve ascoltare, dialogare, concedersi, ipotizzare scenari, talvolta promettere senza mantenere. Altrimenti simpatie, consensi e soprattutto voti non arrivano. Dopo mesi asciutti e decisionisti, nel weekend Draghi ha provato a cambiare il suo approccio incontrando diversi leader, ma forse per colpa o forse per dolo, ha messo una pezza peggiore del buco. Così, infatti, ha dato l’impressione di trattare sulla formazione del nuovo Governo quasi fosse già al Quirinale. La cosa non ha aiutato. Inoltre, sia per ruolo istituzionale che per attitudine personale non avrebbe concesso né promesso nulla, alimentando la percezione di uno che non scende a patti con nessuno.
Allargando l’inquadratura, si tratta di benzina sul fuoco dell’antipatia che arde verso di lui tra i parlamentari, sia di prima che seconda fila. Tra i peones, è palese, dilaga la paura che il suo trasloco da Palazzo Chigi li costringa a lasciare lo scranno con qualche mese di anticipo sulla scadenza, con alte probabilità che si tratti di un addio definitivo. A questo bisogna aggiungere la frustrazione che circola tra i grandi elettori di essere guardati dall’alto in basso, perché poi è dal basso che ti devono votare. E, infatti, sono in tanti a non volerlo votare, in tutti i partiti. Questa percepita (ma mai confermata) alterigia condiziona la corsa al Colle tanto più che, per la prima volta nella storia delle elezioni presidenziali, i leader non devono fare i conti con decine di franchi tiratori, ma contare centinaia di parlamentari di cui non hanno né contezza né controllo.
Che poi, a ben guardare, questa distanza tra sé e il rituale della politica non riguarda solo le masse di parlamentari, ma tocca i protagonisti chiave degli equilibri. Da anni circola il detto che “per capire dove va il vento guarda dove va Franceschini”, poiché raramente sono stati raggiunti accordi importanti che escludessero il potente ex Margherita. E, certamente, tra lui e Draghi non corre buon sangue. Anzi. Discorso simile verso Tajani, il quale coverebbe astio fin dalle sue esperienze europee, ma sarebbe risentito poiché la sua corrente è stata sostanzialmente ignorata in favore di quella più governista. E poi c’è Berlusconi, ferito nell’ego di non aver ricevuto i “dovuti” omaggi dall’ex Bce. Senza contare Giuseppe Conte, ancora convinto che la sua cacciata da Palazzo Chigi sia stata una “usurpazione” di cui vendicarsi.
E certo di rancori e antipatie se ne trovano tante. In fondo, per questa politica, anche per dirigenti esperti e di primo livello, Draghi è un marziano. In 12 mesi di governo raramente ha condiviso una decisione o accettato una proposta parlamentare. Anche la sua auto-candidatura non è stata concordata con nessuno. Senza considerare che, con lui sul Colle più alto, molte delle nomine di alti funzionari e burocrati che oggi vengono condivise dal Quirinale con una fitta rete di interlocutori, verrebbero fatte in totale autonomia, mandando più di qualcuno su tutte le furie. Se a questo aggiungiamo la diffusa paura della politica di perdere il proprio residuo potere, nonché un vivace istinto di sopravvivenza e di autoconservazione, certo i veti per Draghi cominciano a diventare tanti.
Forse troppi se mettiamo in fila anche quelli politici e istituzionali. Perché questo Parlamento è delegittimato nella forma (il prossimo sarà ridotto di un terzo) e nella sostanza (nato nello scenario antico del 2018), ma elegge un presidente che dovrà gestire tre legislature. Forse davvero una prorogatio fino alla nomina del nuovo non è da escludere. E poi ci sarebbe da regolare il passaggio formale di Draghi al Colle (un inedito complicato e non previsto dalla Costituzione) e, soprattutto, la sua successione a Palazzo Chigi. Questo, forse, il punto più delicato. Una alchimia ardua da trovare, foriera di un lungo periodo di scontri, estenuanti trattative o anche possibili elezioni anticipate. Se poi ci mettiamo che parte né la destra né la sinistra lo considerano uno dei loro, è evidente che i veti sono davvero tanti. Troppi? Non lo sappiamo. Si tratta sempre di “super Mario”. (Public Policy)
@m_pitta
(foto cc Palazzo Chigi)