di Massimo Pittarello
ROMA (Public Policy) – Rieccoci, si torna alla realtà. Finito il rimbalzo post Covid, non sono i 200 miliardi del Pnrr o l’uscita dalla procedura d’infrazione a tenere in piedi l’illusione di “un’Italia che va meglio di tutti in Europa”. Secondo i dati della Commissione Ue siamo ultimi per crescita, sempre sotto l’1% nei prossimi tre anni, unici a rimanerci nel 2027. Non solo: tutte le stime sono al ribasso. Bruxelles taglia le previsioni dal +1% del Governo e dal +0,7% ipotizzato in primavera allo 0,4% attuale. E potrebbe non finire qui.
L’intermezzo 2021-2023 non era il miracolo italiano, era il rimbalzo tecnico dopo il crollo pandemico. Forse alimentato da una fiducia verso Governi che sembravano attenti a favorire la crescita, lo sprint non ci ha comunque permesso di recuperare né i livelli pre-Covid né quelli pre-2008. Nel frattempo, il Pil procapite nostrano si allontana da quello tedesco e francese e sta per essere raggiunto da quello spagnolo. Siamo tornati fanalino di coda, esattamente dove siamo sempre stati.
È la normalità italiana, quella che avevamo temporaneamente dimenticato (o forse qualcuno ha dolosamente omesso). Da metà degli anni ’90 viviamo in stagnazione cronica: la crescita cumulata dell’Italia dal 2001 ad oggi è del 4%. Quella dell’Eurozona è del 30%. Non è congiuntura, è struttura. È la nostra traiettoria naturale, e non cambia molto al cambiare dei Governi.
I problemi sono più o meno gli stessi per tutte le diagnosi, dalla Banca d’Italia all’Fmi, dall’Ocse a quasi tutte le audizioni parlamentari: bassa produttività, scarsa innovazione, aziende piccole, inverno demografico, pochi investimenti. La diagnosi è nota, la terapia pure. Per molte ragioni manca sia il medico (la politica) disposto somministrar la medicina che il paziente (i cittadini) ad assumerla. Eppure vengono fuori contraddizioni curiose.
Ci lamentiamo che i giovani fuggono all’estero. Ma poi definiamo “ricco” chi guadagna 50mila euro lordi all’anno. È come nel calcio, dove ci lamentiamo che i giovani non giocano e poi sono pochi gli allenatori che li schierano titolari prima dei 20 anni. E così, mentre il reddito di un dipendente pubblico polacco è simile a quello italiano, i giovani talenti emigrano verso le buste paga tedesche, olandesi, francesi.
Si dice: l’occupazione aumenta e siamo al record di occupati. Vero. Ma non aumenta la produttività per ora lavorata perché si tratta principalmente di contratti a basso valore aggiunto. È il destino di un Paese che ha scelto di basare la propria economia sul turismo, un settore che crea molti posti di lavoro e poche carriere. E nonostante questo abbiamo anche perso il primato di Paese più visitato al mondo.
Il problema non è questo o quel ministro (“i Governi non fanno il Pil”, diceva Siniscalco). Il problema è che per decenni abbiamo vissuto nell’illusione che potessimo permetterci di non riformare nulla, per poi demandare a qualche “podestà straniero” (per citare l’editoriale di Mario Monti sul Corriere della Sera, prima che arrivasse a Palazzo Chigi). Abbiamo creduto che bastasse la retorica del “made in Italy”, qualche bonus edilizio e tanto debito pubblico per continuare a vivere come prima. Ma ora la realtà presenta il conto e il welfare, largamente inteso, comincia a non reggere più. Vedremo come andrà a finire. (Public Policy)
@m_pitta





