di Massimo Pittarello
ROMA (Public Policy) – Quasi scomparsa dal dibattito politico, l’economia italiana si è ridotta a zero anche nella realtà, assolutamente ferma sia nel quarto che nel terzo trimestre dello scorso anno. L’aumento del Pil ottenuto complessivamente nel 2024 (+0,7% effettivo, +0,5% al netto dei 4 giorni lavorativi in più) non è solo inferiore al +1% stimato dal Governo, ma è quasi per metà effetto dell’inerzia del 2023 (che ha regalato due decimali al 2024). Il che significa che, dopo 4 anni, i venti di crescita che avevano cominciato a soffiare dalla seconda metà del 2021 si sono esauriti. Anzi, siamo ufficialmente in bonaccia.
Solo fino a qualche mese (settimana?) fa alcune voci lodavano un Pil nostrano in crescita sopra la media europea, ignorando o omettendo che poco era il merito attribuibile ai nostri Governi (questo, come i precedenti). Comprensibile atteggiamento per chi fa politica, ma l’abbrivio di questi anni si può ricondurre a fattori indipendenti dalla politica. A cominciare da un fisiologico effetto rimbalzo rispetto alla crisi Covid e ai precedenti vent’anni di stagnazione, visto che a inizio 2020 l’Italia non aveva ancora recuperato i livelli del 2007. Il ciclo economico è poi sempre più legato a fattori esogeni, dai tassi all’inflazione, passando per l’andamento dei mercati del nostro export.
Lo sprint di questi 4 anni è iniziato con un grande slancio della manifattura che ha saputo adattarsi velocemente al post pandemia, a cui è seguito un boom del turismo e dei consumi finali, plausibilmente come conseguenza del periodo di ‘ibernazione’ da lockdown, dove sono stati accumulati sia risparmi che la voglia di spenderli. Senza dimenticare che la crescita è stata corroborata dalle risorse del Pnrr, sia da spesa monstre in deficit (per esempio con il Superbonus). Se durante gli ultimi due Governi è aumentato il clima di fiducia per alcune categorie (imprese manifatturiere medio grandi con Draghi, aziende medio piccole del commercio, del turismo e della ristorazione con Meloni), l’aria sta però cambiando da qualche mese.
Il rallentamento della crescita mondiale e la frenata del commercio internazionale, lo spettro dei dazi, le tensioni geopolitiche, la crisi di Suez, la recessione della Germania, il costo ballerino dell’energia. A cui aggiungere 21 mesi di calo consecutivo della produzione industriale, stipendi fermi e crisi aziendali in successione. Molte voci di preoccupazione si sono levate, specie nell’ecosistema imprenditoriale settentrionale ma, escludendo settori dell’agroalimentare o dei servizi (i taxi, per dire) il feeling con il Governo Meloni non è mai sbocciato. E in molti ambienti industriali si dice che la crescita zero degli ultimi 6 mesi non è una sorpresa.
Adesso l’Istat rileva “una flessione de servizi e del primario, con una ripresa del settore industriale”. Bisogna dunque chiedersi se sia solo un rimbalzino o se il vento possa cambiare in futuro. Per il momento l’occupazione ha smesso di aumentare per la prima volta dal 2022 (certifica l’Istat), il prezzo dell’energia è tornato a crescere (+43% in un anno, dice Confindustria), le chiusure di imprese accelerano (rileva Unioncamere), tra gli artigiani c’è “preoccupazione mista a pessimismo” (indagine Cna), la produttività 2023 è in caduta (ancora dati Istat).
Se dal momento si cercano indicazioni sul futuro, difficile che nel 2025 si possa raggiungere il +1,2% previsto dall’Esecutivo. Per avere un’idea, il 2024 ha registrato uno +0,5% partendo dal +0,2% ereditato dal 2023, a cui hanno fatto da acceleratore quasi 30 miliardi di investimenti pubblici aggiuntivi. Per cui le stime di crescita sono sotto esame e sotto revisione, al ribasso. Certamente sul piano dei conti pubblici è stata garantita una discreta sicurezza, che ha consentito di pagare meno interessi sul debito e ha garantito un maggiore spazio di manovra politico. E il boom di entrate tributarie (quasi 25 miliardi in più) ha permesso di prendere fiato.
Se la gestione dei conti è improntata ad un obiettivo di solidità, c’è da chiedersi quale sia, e se ci sia, una strategia per il rilancio economico. Nell’ambito di Impresa 5.0 sono stati prenotati 99 milioni su 6,23 miliardi disponibili. Stellantis annuncia 5 miliardi di investimenti, ma negli Usa. L’ex Ilva è senza un destino. Il piano energia è da verificare. Quello sulla produttività, da produrre. Si potrebbe andare avanti. Il problema è europeo, come dimostra la crisi esistenziale della Germania. Ma se non c’è vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare, figuriamoci cosa può accadere ora che è arrivata la bonaccia. (Public Policy)
@m_pitta
(foto cc Palazzo Chigi)