di Massimo Pittarello
ROMA (Public Policy) – C’è un filo, potremmo dire un legame, una corrispondenza esatta e simmetrica tra le posizioni che lega i discorsi di Fabio Panetta ai numeri dell’Istat. Il Governatore è tornato a concentrarsi sul tema della produttività, lo stesso che aveva affrontato anche nel suo primo discorso alla guida di Palazzo Koch. Ma se il 30 maggio scorso nella sua prima Relazione Annuale aveva evidenziato la stagnazione della produttività italiana rispetto all’eurozona come il principale gap da colmare per il nostro Paese, a Barcellona ha allargato l’inquadratura riferendosi a tutto il Vecchio Continente.
Negli ultimi dieci anni – dice il suo discorso – gli investimenti in ricerca e sviluppo effettuati dalle aziende europee sono stati circa il 60% di quelli delle imprese statunitensi, con un divario crescente nel tempo. E ciò amplifica il diverso ritmo di sviluppo di Usa e Ue. Una situazione delicata di euro decrescita a cui sopperire con massicci investimenti pubblici che privati (800 miliardi aggiuntivi ogni anno da qui al 2030), sostiene Panetta ricalcando la linea Draghi. Una soluzione su cui pesa il perenne interrogativo su chi deve essere, in ultima istanza, a metterci i soldi e sui cui la scuola Bankitalia rilancia il tema degli eurobond, da attivare quando il PNRR sarà completato e si dovranno restituire i soldi presi a prestito singolarmente dai singoli Stati o collettivamente dall’Ue.
In molti si sono concentrati su questo tema, decisivo per lo sviluppo dell’industria europea, per l’andamento dell’economia continentale, per il futuro stesso dell’Unione. Meno enfasi è stata data ad un altro tema, e cioè “ai ritardi accumulati a partire dalla fine del secolo scorso, quando il sistema produttivo europeo non riuscì a sfruttare appieno le opportunità offerte dalla diffusione di internet e delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione”. Così, mentre davamo spazio ai giganti tecnologici statunitensi – Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft – in Europa i vari Stati in concorrenza tra loro impedivano la nascita di quei ‘campioni europei’ che sarebbero necessari a sopravvivere nella competizione globale. Un tema legato all’assenza di libero mercato, a limiti antitrust, a un certo statalismo latente nei governi europei di cui si è parlato. E di cui si parlerà ancora.
Tuttavia oggi è da rilevare come nessun abbia notato che il tema sollevato da Panetta trova esatta corrispondenza nei numeri diffusi dall’Istat esattamente il giorno prima. Secondo l’Istituto di Statistica nel terzo trimestre l’economia italiana è rimasta stazionaria, mentre si registrano 47mila occupati in più e un ulteriore calo della disoccupazione. Numeri che hanno portato in molti della maggioranza a lanciare sguaiate grida di giubilo, quando basterebbe ragionarci un secondo per capire che la notizia non è così poi positiva. Che succede infatti se si lavora di più (aumentano gli occupati), ma si produce sempre la stessa quantità? Che scende la produttività, quel problema sollevato più volte da Panetta. Il che significa meno specializzazione, meno innovazione, meno competitività. Più lavoro povero.
Insomma, non si può invocare la soluzione Panetta da un lato e mentre la si rinnega dall’altro. Non si può dire che Bankitalia ha ragione quando chiede gli eurobond, una maggiore integrazione industriale europea, mentre poi si fanno le orecchie da mercante di fronte ai dati Istat che dimostrano che il problema in Italia non si sta risolvendo, ma aggravando. Va bene il ‘productivity compact’ per l’Europa? Diciamo che dovrebbe andar bene fare qualcosa anche in Italia. E vale per la destra, che poco guarda alla manifattura e alle grandi imprese e molto si occupa di tassisti, ristoratori, commercianti (non a caso anche Confcommercio ha esultato di fronte alla nota Istat). E vale a sinistra, che invoca sussidi e aiuti per tutti, ignorando (o facendo finta di ignorare) che senza crescita ci sarà sempre meno da ‘redistribuire’. (Public Policy)
@m_pitta