di Massimo Pittarello
ROMA (Public Policy) – Nel question time alla Camera di mercoledì, il ministro delle Imprese Adolfo Urso (nella foto) ha esordito con toni trionfalistici: Transizione 5.0 è “una misura popolare, molto gradita alle imprese, di cui non possono fare a meno”, ha detto, parlando di “un successo superiore alle aspettative”. Se davvero così fosse, viene da chiedersi perché interromperla così bruscamente. Di solito, squadra che vince non si cambia.
La difesa di Urso passa per Bruxelles. A giugno la Commissione europea ha invitato gli Stati membri a rivedere i Piani nazionali entro la fine del 2025, per garantire il pieno utilizzo delle risorse del Pnrr. Anche se la revisione italiana non è ancora stata approvata, il ministro ha spiegato che, alla luce delle stime poco incoraggianti fornite dalle associazioni industriali — che prevedevano non più di 2 miliardi di investimenti — il Governo ha scelto di ridurre la dotazione del piano a 2,5 miliardi di euro. Un ridimensionamento che suona come l’ammissione di un problema strutturale più che di un semplice aggiustamento tecnico.
Transizione 5.0 era nata con ambizioni alte: incentivi con un generoso credito di imposta, continuità con il modello di Industria 4.0, e una promessa di accelerazione sulla digitalizzazione sostenibile. Ma il percorso si è subito complicato: burocrazia, tempi lunghi e procedure farraginose hanno scoraggiato soprattutto le Pmi, mentre anche le grandi imprese hanno incontrato difficoltà. Solo dopo varie correzioni la misura aveva cominciato a muoversi. Ed è proprio in quel momento che è arrivato lo stop.
Forse, più che una scelta politica, un cortocircuito informativo tra ministeri e associazioni. Fatto sta che le risorse sono state dirottate nella legge di Bilancio, mentre molti imprenditori, che avevano già avviato progetti, acceso mutui e pagato consulenze, si sono riversati su Transizione 4.0, esaurendone rapidamente i fondi.
Ora il Governo promette un rilancio. “È necessario garantire continuità al piano e renderlo strutturale”, ha ribadito Urso, annunciando una possibile proroga per il prossimo biennio, in modo da consentire alle imprese di pianificare con maggiore stabilità. Resta però il nodo della credibilità istituzionale: se davvero si imponeva una revisione, una comunicazione più chiara e tempestiva avrebbe evitato incertezza e disorientamento nel mondo produttivo. E l’incertezza, si sa, è il peggior nemico di chi fa impresa.
Meno noto, ma altrettanto evidente, è che il peggior nemico di Urso sembrano oggi proprio le associazioni imprenditoriali. “Fake news”, ha detto in aula, bollando le critiche arrivate da Confindustria su Transizione 5.0. E con una frecciata ha aggiunto: “Confindustria Vicenza evidentemente non conosce le sue imprese” – riferimento pungente a un territorio una volta vicino alla Lega e poi sostenitore di Meloni.
Parole che lasciano il segno: perché se la Transizione 5.0 ha mostrato limiti di governance, la transizione del dialogo tra Governo e imprese rischia di essere ancora più complessa. (Public Policy)
@m_pitta
(foto cc Palazzo Chigi)





