Bluffare e barare. Il poker delle riforme sul premierato elettivo

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di Carmelo Palma

ROMA (Public Policy) – Venerdì sera, 2 febbraio, hanno iniziato a circolare le bozze informali degli emendamenti della maggioranza sul disegno di legge relativo al cosiddetto premierato elettivo. Termine improprio, peraltro, perché la riforma non modifica i poteri del presidente del Consiglio come primus inter pares tra i ministri del Governo e non lo rende affatto “primo”, come avviene in tanti regimi super-parlamentari, in cui il Primo ministro non è eletto dal popolo e può essere licenziato dal Parlamento – la Germania, il Regno Unito, la Spagna…– e tuttavia, finché rimane in carica, ha effettivi poteri di decisione della politica generale dell’Esecutivo e non fa il mediatore e conciliatore degli appetiti di questo e di quello e l’equilibrista sul filo teso o lasso dei rapporti di coalizione.

Il disegno di legge Casellati – ricordiamolo – fa eleggere direttamente il “vecchio” presidente del Consiglio, non un “nuovo” Primo ministro. Rende molto più stabile una figura istituzionalmente non molto efficiente e quindi, da un certo punto di vista, cronicizza l’instabilità. In ogni caso, sui testi che circolavano lo scorso fine settimana e che rimanevano bozze prive del crisma dell’ufficialità, si è accesa una accanita discussione interpretativa sul punto fondamentale del “simul stabunt, simul cadent”, cioè sul collegamento tra le sorti del Primo ministro eletto e quelle del Parlamento e della legislatura.

Nella prima versione del disegno di legge il presidente del Consiglio eletto direttamente, una volta insediato, avrebbe potuto essere liquidato facilmente da una congiura di palazzo – cadendo su un voto di fiducia respinto o su una mozione di sfiducia approvata – e avrebbe dovuto lasciare spazio al presidente bis, l’unico davvero inamovibile perché dalla sua caduta, per qualunque ragione, fosse pure la morte, sarebbe inevitabilmente derivata la fine della legislatura. Secondo la vulgata, era una formulazione troppo sfavorevole per la numero uno della destra, Meloni e troppo a vantaggio del numero due, Salvini.

Si è così giunti venerdì scorso a una seconda formulazione, su cui gli interpreti si sono però immediatamente divisi. C’era chi sosteneva che cambiasse poco o niente e chi invece riteneva che il presidente eletto fosse stato davvero rafforzato, potendo un presidente-bis essere incaricato solo “in caso di impedimento permanente, morte, decadenza o dimissioni volontarie del presidente del Consiglio eletto”. Nello stesso tempo, altri facevano notare che se dal testo era chiaro che lo scioglimento delle camere sarebbe certo derivato dall’approvazione di una mozione di sfiducia contro il presidente eletto, non era altrettanto chiaro che le camere si sarebbero sciolte se il presidente fosse caduto su uno dei tanti voti di fiducia, con cui si affretta in Parlamento l’esame e l’approvazione dei provvedimenti.

Alla scadenza del termine degli emendamenti di lunedì 5 febbraio, anzi anche in ritardo, alla fine la maggioranza, direttamente per iniziativa del Governo, ha presentato emendamenti a loro volta emendati, che però, a quanto pare, hanno lasciato irrisolto l’interrogativo di venerdì 2 febbraio, al punto che martedì 6 febbraio, nel primo pomeriggio la ministra Casellati ha annunciato solenne : “La maggioranza potrebbe modificare ancora la norma del premierato, rispetto agli emendamenti del Governo presentati ieri, riguardo ai poteri del premier in caso di sfiducia, che per alcuni giuristi potrebbero essere oggetto di diverse interpretazioni”.

Perché il Governo non riesce a scrivere chiaramente, malgrado non manchi di uffici di supporto molto professionali, che cosa succede se il presidente eletto viene sfiduciato con una mozione motivata e cosa invece se cade su un voto di fiducia in Parlamento su un articolo o un emendamento? La stessa cosa o due cose diverse e quali? 

La risposta più semplice e più veritiera è perché non può, cioè perché non riesce a trovare un accordo. Dunque le diverse componenti della maggioranza, anziché affrontarsi apertamente in uno scontro che farebbe emergere le divisioni, giocano a mettersi reciprocamente in trappola grazie a norme con un doppio fondo invisibile, ma potenzialmente implacabile. O meglio, giocano a poker, bluffando e anche barando come i pokeristi più accaniti e consumati. Se sono coperte e dissimulate le mosse, è però chiarissima la posta in gioco. La Meloni di oggi vorrebbe dare più potere alla Meloni di domani. Le altre componenti della coalizione vorrebbero rendere più contendibile e intralciabile questo potere. Entrambe le parti certo sottovalutano il rischio che saranno altri e non loro i beneficiari o le vittime di queste manovre, essendo il ciclo di vita delle leadership politiche molto breve ed effimero nella lunga e apparentemente infinita stagione populista, che sta attraversando la democrazia italiana. Ad ogni modo, non si può sperare che riforme costituzionali fatte così, oltre che per questi fini, siano un viatico di salute e di fortuna politica. (Public Policy)

@carmelopalma