di Carmelo Palma*
ROMA (Public Policy) – Di fronte alle convulsioni psicopolitiche dell’Occidente e alla deriva oligarchico-plebiscitaria degli Stati Uniti si finisce naturalmente per chiedersi se venga prima l’uovo o la gallina, cioè se sia la crisi delle istituzioni democratiche ad avere suscitato la sfiducia dei cittadini o se sia la “democrazia della sfiducia”, cioè la diffusione dello scetticismo sul funzionamento delle istituzioni e del sospetto sul loro condizionamento ad avere irrimediabilmente delegittimato il sistema della rappresentanza democratica e ad avere propiziato il successo di modelli più verticali e disintermediati di rapporto tra elettori e governo e tra politica e potere. Se si guarda a questo fenomeno in una prospettiva domestica, si sarebbe spinti a rispondere: senza dubbio, viene prima l’uovo.
Il fallimento politico, economico e civile dell’Italia – il debito monstre, la scarsa crescita, la stagnazione dei redditi, la bassa occupazione, la scarsa vitalità e competitività economica, il welfare sempre più razionato e disuguale, l’opacità e l’inefficienza del sistema amministrativo, l’ipoteca criminale sull’economia e sulla società legale – sembra essere la causa e non l’effetto della sfiducia dei cittadini nelle istituzioni. Da questo pare discendano le fiammate antipolitiche che, da Tangentopoli in poi, hanno cercato exit strategy dalle crisi politiche per vie traverse e post-democratiche: la supplenza della magistratura, poi la seduzione aziendalistica del berlusconismo, infine quella populistico- leaderistica, fondata sulla supposta coincidenza tra la volontà generale dei cittadini e l’azione pubblica di un outsider investito di una funzione salvifica.
In Italia ormai da più di trent’anni si fa fortuna nel Palazzo solo parlando male del Palazzo e la prevalenza del voto-contro, cioè del voto in negativo, si è incarnata in una molteplicità di “salvatori” di qualità variabile, ma tutti consacrati alla missione di una taumaturgica tabula rasa, da cui fare risorgere un’Italia migliore. Lasciando da parte gli scarsi risultati di questi esperimenti – per due volti rimediati tecnocraticamente da parte di Esecutivi (Monti e Draghi), che malgrado indiscutibili meriti non hanno lasciato traccia sul piano del consenso e della cultura politica – sembrano esserci pochi dubbi che, almeno all’origine della crisi italiana e in tutti i successivi passaggi da un presunto salvatore della patria a un altro, ci sia un fallimento delle istituzioni.
Se uno guarda invece a quel che è successo negli Stati Uniti – ma si potrebbero fare esempi analoghi a proposito della Brexit, del successo delle ultradestre in più di mezza Europa o della fascio-comunistizzazione del bipolarismo francese – è davvero difficile individuare le cause della crisi democratica in un risalente e grave fallimento delle istituzioni di governo e in una condizione oggettiva di semi-default civile e sociale.
Per capire le cause di queste convulsioni violentissime e potenzialmente esiziali ha davvero poco senso guardare solo agli indicatori che, un po’ troppo deterministicamente, si considerano infallibili precursori di una crisi di legittimità e di consenso: per primi quelli economici. Quel che si è rotto nella relazione tra cittadini e istituzioni, e nella fiducia dei primi rispetto alla capacità delle seconde di fare davvero gli interessi generali della popolazione, ha molto più che a fare con la nozione che dell’interesse generale si è andata affermando contro un’idea puramente “gestionale” del governo politico.
Le istituzioni, sotto la pressione di campagne di fortissima polarizzazione (condotte resuscitando le categorie tradizionali dell’etnia, della lingua, della religione e della nazione), non sono state accusate e condannate per avere impoverito o abbandonato i cittadini a un destino di emarginazione e miseria, ma per averli defraudati del significato stesso dell’appartenenza identitaria, per averli resi apolidi nella loro stessa patria, per avere consegnato la loro vita e il loro perdurante benessere a meccanismi incomprensibili e incontrollabili e quindi potenzialmente manovrabili, e forse già manovrati, contro di loro. Si tratta, né più, né meno, della rivolta dell’uomo-massa, che però paradossalmente protesta contro l’affronto della spersonalizzazione politica e non si rassegna a essere un numero del mercato e della società globale. È la contestazione della debolezza della democrazia, paralizzata dai suoi meccanismi di controllo interno, di fronte al potenziale (o già reale?) spossessamento della stessa sovranità dello Stato da parte di poteri esterni, stranieri e nemici.
Tutto quello che sta succedendo alle democrazie, come, a maggiore ragione, tutto quello che si sta muovendo contro di loro (al loro esterno e al loro interno), è una eccezionale rivincita della storia e della geografia sul diritto e sull’economia e dell’identità sulla libertà. Una rivincita che è stata favorita, se non direttamente innescata, dalla radicale sostituzione dei sistemi istituzionali di trasmissione di informazione e conoscenza, che costituivano fattori di fortissima integrazione socio-culturale, con i meccanismi della comunicazione di consumo, che strutturano un sistema di vita e relazioni sociali parallelo e disgregante e producono, a tutti i livelli, in alto come in basso, fenomeni fortissimi di alienazione psicologica e dissociazione cognitiva.
In questo scenario, a screditare le istituzioni e la politica democratica non è stato il loro fallimento pratico, ma il loro svuotamento valoriale e di senso da parte di ideologie reazionarie, che sono state in grado di rappresentarle come l’apparato di servizio di un Anticristo senza terra, senza nome e senza confini, che dietro una pervertita immagine di giustizia e benevolenza nasconde la diabolica potenza della frode e del dominio.
Forse – è un’ipotesi di scuola, anzi di lavoro – la ragione per cui le democrazie sembrano così vulnerabili all’offensiva “Blut und Boden” è che non hanno neppure compreso il significato di questa sfida, rispondendo, come usa dire, fischi per fiaschi e non intendendo la natura profonda, anche se manipolata, di questa domanda di senso e la seduzione, più “erotica” che intellettuale, del grande reset anti-liberale. Perché ci dovrebbe piacere la libertà più dell’identità? Ecco la domanda a cui occorre rispondere, la sfida che occorre accettare per combattere e sperare di vincere la guerra anti-illuministica contro la ragione politica democratica. E sia la sfida che la guerra riguardano, ovviamente, anche l’Italia. (Public Policy)
@CarmeloPalma
*l’autore è responsabile dell’Ufficio legislativo di Azione al Senato