Dalla Brexit alle riforme: le sfide che attendono l’Ue nel 2020

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di Paolo Martone

ROMA (Public Policy) – La Brexit, il Green New Deal, il ruolo dell’Europa nel mondo, la tenuta degli equilibri interni e le riforme più urgenti: sono queste le sfide principali che attendono l’Unione europea nel 2020.

BREXIT

La Camera dei comuni giovedì scorso ha approvato l’Accordo di recesso dall’Ue proposto dal premier Boris Johnson, reduce dalla vittoria elettorale che gli ha garantito un’ampia maggioranza. Adesso manca solo il via libera dei lord e il ‘Royal assent’, dopodiché Londra uscirà dall’Ue nei tempi previsti (il 31 gennaio). Il divorzio non sarà immediato: a quel punto inizierà un periodo di transizione – fino alla fine del 2020 – durante il quale dovranno tenersi trattative serrate per definire accordi commerciali e relazioni future. E’ altamente probabile che servirà un’estensione dei tempi, vista la complessità dei temi sul tavolo. Nonostante tre anni caratterizzati da grande incertezza sulla Brexit – con tre rinvii dell’uscita – la parte difficile viene proprio adesso: si tratta di capire fino a che punto ci sarà reciprocità tra Londra e Bruxelles, con la prima che potrebbe “minacciare” di trasformarsi in una sorta di Singapore sul Tamigi, in grado di attrarre (molto più di quanto abbia fatto finora) talenti e investimenti.

Il Regno Unito “deve decidere quanto vuole essere vicino all’Ue e alle sue regole” ha detto Ursula Von der Leyen, centrando alla perfezione il cuore del problema. La leadership di Johnson si è dimostrata decisamente più assertiva rispetto a quella di Theresa May, e anche in grado di sfidare l’Ue mettendosi di traverso (come si evince dal rifiuto di indicare un commissario europeo). Quindi, non saranno mesi facili, gli attriti non mancheranno, ma il buon esito delle trattative per la nuova partnership è assolutamente cruciale. La seconda incognita riguarda proprio l’Ue così come siamo abituati a conoscerla, e che non sarà più così. La Gran Bretagna fungeva anche da equilibratrice della predominanza di Francia e Germania, smussando rigidità e spinte dirigistiche. Senza Londra, Parigi e Berlino si apprestano a diventare ancora più leader di prima: sarà un bene per l’Ue? Difficile saperlo, ma i dubbi sono tanti.

GREEN NEW DEAL

E’ il fiore all’occhiello della nuova Commissione europea, la grande strategia di indirizzo politico per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, mobilitare risorse e cambiare i comportamenti di tutti (famiglie e imprese). Tuttavia, il contesto in cui si sono mossi i primi passi non è particolarmente incoraggiante: la Conferenza Onu sui cambiamenti climatici (la Cop 25) tenutasi a Madrid è stata un fallimento, mentre quella di tre anni prima a Parigi fu un grande successo. A conti fatti, il problema è il passaggio dalle parole ai fatti, ovvero all’implementazione delle politiche, e già alla presentazione del Green New Deal l’Europa ha perso un pezzo: la Polonia, molto dipendente dal carbone, per il momento si è sfilata.

Il nuovo Piano ambientale europeo è un’opportunità economica per realizzare la transizione, ma serviranno molte risorse, e bisognerà verificare l’efficacia reale degli investimenti pubblici e privati. Per aiutare la transizione dei Paesi meno pronti la Commissione varerà il ‘Just Transition Fund’, con una dotazione di almeno 100 miliardi di euro, e l’Italia chiede di utilizzarlo in tutti i settori e in tutti Paesi, facendo un indiretto richiamo alla ristrutturazione dell’ex Ilva. Il 2020 sarà fondamentale per capire come partirà l’ambiziosissimo piano, tenendo ben presente che a Bruxelles servirà una leadership politica forte per “imporre” una rotta, anche perchè le resistenze (in particolare nel blocco dell’Est) sono ben note.

RUOLO NEL MONDO

in un contesto globale problematico e pieno di tensioni l’Ue dovrà far sentire la sua voce in maniera più incisiva rispetto al passato: le crisi regionali (Libia, Siria, ma anche Iraq) sono praticamente alle porte, mentre con Turchia e Russia rimangono evidenti criticità. C’è poi la partita del commercio, della rivoluzione digitale e della cybersecurity, dove il vecchio Continente rischia di finire nella morsa della competizione tra Cina e Stati Uniti: un braccio di ferro che con la guerra dei dazi crea danni consistenti alle aziende Ue, mentre sul fronte delle tecnologie Washington spinge per allontanare gli alleati europei dalle sirene di Pechino (interessata allo sviluppo della rete 5G). A livello interno l’Europa deve recuperare terreno sul digitale, ma dovrà farlo unita, visto che gli sforzi a livello nazionale dei singoli Paesi non sono sufficienti per gareggiare con i “giganti”, anche perchè gli investimenti necessari sono enormi. Quindi, se si vuole competere su scala globale bisogna investire sulle “eccellenze” digitali Ue.

C’è poi il capitolo della Difesa comune: l’ultima Commissione ha creato le basi per un’Europa della Difesa, ma adesso la struttura vera e propria va costruita. In primis, servono finanziamenti, e la sfida sarà quella di raggiungere gli obiettivi che ci si era posti mettendo sul tavolo circa 13 miliardi per il nuovo Fondo Ue per la Difesa, 6 miliardi per la mobilità militare e aumentando il bilancio Ue per la politica estera. Le proposte al riguardo delle scorsa presidenza di turno, la Finlandia, erano decisamente modeste, e nel corso del nuovo anno bisogna capire se il pacchetto verrà rilanciato oppure no. Ursula Von der Leyen vuole una Commissione europea “geopolitica e ambiziosa”, e questo implica una maggiore importanza della politica estera e di sicurezza comune: temi che necessitano di robusti passi avanti. Sul fronte commerciale la vecchia Commissione, nonostante la rinascita di spinte protezionistiche, nel suo mandato è riuscita a siglare importanti accordi con Giappone, Canada e Singapore. Tuttavia, rimane una consistente ostilità “interna” a queste intese di libero scambio, e c’è quindi da capire che tipo di politica commerciale vorrà seguire L’Ue in questo nuovo corso. In definitiva, il 2020 sarà importante per vedere come i diversi Paesi si collocheranno nel confronto Usa-Cina e riguardo a Paesi come la Russia, e anche per capire se l’Europa riuscirà a trovare una sua collocazione internazionale negli scontri che ci sono a livello mondiale.

FRAGILITÀ INTERNE, INCOGNITE E RIFORME

La nuova legislatura dovrà fare i conti con un Parlamento europeo più frammentato e dove le forze sovraniste-euroscettiche non sono mai state così forti. Inoltre, il feeling tra la nuova Commissione e l’Eurocamera non sembra eccezionale: pesa l’affossamento (deciso dai leader Ue) del meccanismo degli spitzenkandidat, che ha spianato la strada a Von der Leyen a scapito delle famiglie politiche rappresentate a Strasburgo. La stessa presidente a luglio ha ricevuto il via libera della plenaria con soli 9 voti di scarto (e l’appoggio decisivo dei parlamentari M5s). A novembre l’approvazione dell’intero Collegio ha fatto registrare una maggioranza ampia, tuttavia gli equilibri sono delicati, e lo si è visto durante l’iter di conferma dei nuovi commissari, quando si è rischiata la crisi politica con la bocciatura del nome indicato dalla Francia. Per arginare le pressioni populiste e rendere l’Ue ancora più democratica, la presidente ha annunciato un “triangolo” più diretto tra Consiglio, Commissione e Parlamento. L’offerta arrivata a Strasburgo è questa: se l’Eurocamera dovesse votare a favore di un’azione legislativa, l’Esecutivo in automatico la proporrà, aggirando in questo modo la mancanza di iniziativa legislativa che grava sull’Assemblea.

Altro nodo è l’immigrazione, con la riforma del Regolamento di Dublino ferma da mesi nei cassetti del Consiglio Ue: in primavera la nuova Commissione lancerà il “Patto Ue per l’immigrazione”, che secondo la presidente sarà “umano ed efficace”, perché l’Europa “dovrà sempre accogliere chi ha bisogno di protezione internazionale”, ma anche “assicurare che chi non ha il diritto di restare ritorni” nel Paese d’origine. L’obiettivo principale rimane la riforma dell’Asilo, e vedremo se questa Commissione riuscirà a convincere i Paesi membri. Ci sono poi riforme da completare, come quelle che riguardano l’Unione bancaria (con il tema Mes che in Italia è diventato politicamente incandescente), l’Unione dei mercati dei capitali e il rafforzamento dell’Unione economica e monetaria. Sempre in ambito economico, ci sarebbe anche la riforma delle regole di bilancio (sui cui però c’è incertezza) per escludere gli investimenti pubblici “green” dal computo del deficit ai fini del rispetto del Patto di Stabilità. Tuttavia, non è chiaro in quale misura Von der Leyen sia favorevole ad allargare le maglie del Patto in tale direzione. Altra questione fondamentale riguarda il prossimo bilancio al lungo termine dell’Ue, ovvero il Quadro finanziario pluriennale (Qfp) 2021-2027: il negoziato è incagliato, e nell’ultimo vertice Ue non si sono registrati passi avanti. Allo stato attuale sembra difficile che si trovi un accordo nei primi mesi del 2020, e un’intesa solo nella seconda metà dell’anno farebbe slittare l’avvio di tutti i nuovi programmi (in teoria, dovrebbero partire ad inizio 2021), Green Deal compreso.

Infine, qualche dubbio c’è anche sulla stessa presidente, che a differenza dei suoi predecessori (Juncker, Barroso e Prodi), non ha mai guidato il Governo del suo Paese – è stata ministro della Difesa, degli Affari sociali e della Famiglia – e di conseguenza non ha mai partecipato prima d’ora al Consiglio europeo. Se questa mancanza sarà un limite lo vedremo nei prossimi mesi, anche perchè le sfide che attendono la prima presidente donna della Commissione sono complesse e imminenti. (Policy Europe / Public Policy)

@PaoloMartone