di David Allegranti
ROMA (Public Policy) – Tra gli sconfitti della settimana quirinalizia, quella del “When in trouble, go bis”, non c’è soltanto Matteo Salvini. Anche Giuseppe Conte, presidente del M5s, ne esce molto male. Sconfessato dai suoi già nelle settimane precedenti il voto – voleva una donna, ma tra i senatori era salito per tempo il grido ‘Mattarella, Mattarella’ – e alla rincorsa di un ruolo da kingmaker nell’elezione del presidente della Repubblica, Conte è oggi messo sotto accusa da Luigi Di Maio. Il ministro degli Esteri ha usato, subito dopo l’elezione di Mattarella, sabato scorso, parole molto dure nei confronti dell’ex presidente del Consiglio. “Alcune leadership hanno fallito, hanno alimentato tensioni e divisioni: dobbiamo lavorare per unire, per allargare, la politica in questi giorni è rimasta vittima di se stessa: per fortuna questo stallo l’hanno risolto il Parlamento grazie anche al contributo del presidente del Consiglio Mario Draghi”, ha detto l’ex capo politico del M5s. “Se Di Maio parla di fallimento, se di Maio ha delle posizioni le chiarirà perché lui era in cabina di regia, come ministro l’ho fatto partecipare, ci chiarirà perché non ha chiarito questa posizione, e soprattutto ci chiarirà i suoi comportamenti, non a Conte, agli iscritti”, ha replicato lo stesso Conte.
Il duello, sopito per settimane, se non per mesi, adesso trova il suo naturale sfogo. Da una parte c’è Conte, leader del M5s, presidente del Consiglio disarcionato da Mario Draghi, popolare nei sondaggi, che piace anche a sinistra. Dall’altra c’è Di Maio, che ha cercato di affinare il processo di istituzionalizzazione del M5s. Ha cercato di prendersi delle responsabilità per le sortite giustizialiste del M5s, ancorché in maniera non troppo convincente. Eppure, va detto, è proprio lui che chiese l’impeachment di Mattarella la sera salvo pentirsene il giorno dopo. È lui che s’accompagnò, insieme ai più movimentisti dei 5 stelle, ai gilet gialli. Ora, almeno per Di Maio, è tutto dimenticato, ma noialtri non possiamo far altro che ricordare quanto il successo del M5s dipenda anche da ciò che il ministro degli Esteri ha detto in questi ultimi dieci e passa anni di attività politica. Non è chiaro chi vincerà lo scontro, non è nemmeno chiaro quanti parlamentari controlli Conte e quanti Di Maio. Certo è che i 5 stelle sono autenticamente diventati un partito tradizionale. Ci sono anche i dualismi come in certi partiti di centrosinistra, vedi l’antica contrapposizione fra Veltroni e D’Alema. Ci sono persino le correnti, ormai così strutturate da essere ben rappresentate nelle assemblee grilline, dove gli appartenenti a questa o a quella componente intervengono in blocchi compatti, a ripetizione, per dimostrare la loro consistenza quantomeno dal punto di vista quantitativo. È insomma finita la stagione dell’antipolitica, almeno per i 5 stelle, che da incendiari si sono riscoperti pompieri.
C’è un centrodestra da rifondare. Mesi di difficoltà identitarie e strategiche sono stati ben rappresentati dalla settimana per l’elezione del nuovo capo dello Stato. La coalizione di Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia sconta tutte le difficoltà di uno schieramento scomposto: due partiti sostengono il Governo, uno – in crescita – è all’opposizione. E qui forse sta parte del problema almeno per Matteo Salvini.
Uno dei problemi del leader della Lega è che non puoi fare l’uomo di governo e quello di coalizione, se un pezzo importante della tua coalizione, Giorgia Meloni, sta all’opposizione e tu vuoi rincorrerla/sfidarla. Troppe parti per una commedia tragica, come ha dimostrato l’accidentato percorso verso il Mattarella bis. La leader di Fratelli d’Italia, invece, procede nella sua corsa verso le elezioni politiche, sfruttando ogni occasione per mantenere la propria diversità rispetto al centrodestra di governo. È rimasta coerente, dicendo fin dal principio no al Mattarella bis. Ha lasciato che Salvini si andasse a schiantare contro se stesso, ha rivendicato la nettezza delle proprie posizioni. Finché questa doppia anima del centrodestra non sarà risolta, sarà impossibile per la coalizione trovare un equilibrio politico. Oltretutto, adesso è appena iniziata la campagna elettorale per il 2023, c’è da immaginare che i toni saranno sempre più accesi. Per qualcuno, forse, inizieranno brutte settimane. Vedi, appunto, Salvini, la cui leadership procede – anziché melonianamente spedita – per consunzione. Forse è tempo che i vari Giorgetti, Zaia e Fedriga facciano una loro mossa, per quanto la Lega sia l’ultimo partito leninista rimasto in Italia ci sono delle occasioni che il centrodestra sta oggettivamente perdendo. Non è riuscito a trovare un candidato alternativo al presidente della Repubblica appena riconfermato e rischia di non essere competitivo alle prossime elezioni politiche. (Public Policy)
@davidallegranti