Il femminicidio: un reato molto, anzi troppo speciale

0

di Carmelo Palma*

ROMA (Public Policy) – Nella legge approvata oggi in prima lettura al Senato all’unanimità (161 voti favorevoli, zero contrari e zero astenuti), assieme ad una serie di norme volte a punire in modo più severo comportamenti violenti contro le donne (dai maltrattamenti in famiglia allo stupro), si prevede che solo una particolare categoria di omicidio volontario, a prescindere da eventuali circostanze aggravanti, sia punito con la pena dell’ergastolo: quello compiuto da “chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna, o in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali”.

L’istituzione di un autonomo reato di “femminicidio”, come recita la rubrica del nuovo articolo 577-bis del codice penale, che la proposta vorrebbe introdurre, deriva una fattispecie incriminatrice speciale da una categoria che nel dibattito scientifico, per non dire di quello pubblicistico, ha caratteri complessi e tutt’altro che univoci nell’elemento psicologico, che però sarebbe determinante per qualificare e “unificare” il reato.
È femminicidio l’omicidio dell’uomo che uccide la moglie o la figlia che non ubbidisce ai suoi ordini, come il reato d’odio dello squilibrato incel convinto che le donne congiurino contro la felicità degli uomini o il crimine del serial killer che uccide le prostitute per vendetta o frustrazione.

Che bisogno c’era di prevedere un reato di femminicidio, quando agendo sulle circostanze aggravanti dell’articolo 577 del codice penale sarebbe stato possibile estendere, in modo più generale, l’ergastolo – già oggi previsto per l’omicidio dell’ascendente, del discendente, del coniuge, del convivente, della parte dell’unione civile o di altra persona legata all’omicida da una relazione affettiva, ovvero per l’omicidio commesso per motivi futili e abietti o adoperando sevizie o agendo con crudeltà – anche ad altri omicidi d’odio, per motivi fondati sull’identità sessuale o di genere delle vittime?

Per due ragioni, abbastanza evidenti e tra loro connesse. La prima è che per il legislatore l’uccisione di una donna deve essere più grave di qualunque altro crimine fondato sugli stessi motivi e caratterizzato dallo stesso elemento psicologico. Il padre islamista che uccide la figlia perché è lesbica o il figlio perché è gay non merita lo stesso ergastolo, per così dire, diretto del marito islamista che uccide la moglie che ha l’ardire di mettere la minigonna o di tradirlo con un altro uomo. La seconda è che solo un nuovo reato di femminicidio, proprio perché nuovo e speciale, aveva la potenza “segnaletica” necessaria a dare evidenza dell’unanime riscontro politico all’allarme sociale provocato dalle violenze e dagli omicidi, di cui sono vittime le donne. Ancora una volta, la gravità di un reato non viene misurata razionalmente in base alla gravità della condotta e del danno arrecato alla vittima, ma alla gravità socialmente percepita del fenomeno di cui il fatto reato è considerato espressione. Il risultato è che però, per lenti scivolamenti, la politica penale diventa la prosecuzione della campagna elettorale con altri mezzi.

Che l’intenzione del legislatore sia quella di “blindare la pena dell’ergastolo”, come ha scritto il Prof. Gian Luigi Gatta su “Legislazione penale” appare evidente anche da alcuni artifici tecnici, decisamente problematici in termini di legittimità, come quello di prevedere l’applicazione delle aggravanti del reato di omicidio al femminicidio, per cui già è comminata la pena dell’ergastolo, col solo fine di ridurre “le ipotesi in cui il giudice possa considerare prevalenti le attenuanti, escludendo così l’applicazione dell’ergastolo”.
Rimandando al contributo originale l’approfondimento del tema, vale la pena di considerare che la surrogazione attraverso la legge penale dell’impegno che le istituzioni dovrebbero profondere, con altri mezzi, per prevenire e arginare le violenze contro le donne – che sono in molti casi violenze ampiamente annunciate e prevedibili – è politicamente deresponsabilizzante e socialmente irrilevante, visto che la funzione preventiva della pena rispetto ai reati d’impeto è sostanzialmente nulla.

Per altro verso, derivare l’elemento psicologico del reato da un giudizio potenzialmente ideologico sull’identità del reo e sulle sue convinzioni morali e religiose sull’identità della vittima è sempre molto rischioso. Questa fu, nella scorsa legislatura, la critica che, al di là della buona o mala fede con cui venne avanzata, la destra italiana razionalmente mosse contro il famoso disegno di legge Zan. Un cortocircuito molto simile – in questo caso, a quanto pare, del tutto indifferente agli eletti della destra italiana – è legato al delitto di femminicidio, la cui sostanza sembra molto più legata all’identità dell’autore che della vittima.

È femminicidio il delitto di chi possiamo presumere che odi le donne, derivando questa presunzione dalle sue convinzioni e non dalla sua condotta. Come spesso succede nell’esperienza parlamentare una unanime convergenza sulla legislazione penale premia interventi molto, anzi troppo speciali e emergenziali e altrettanto problematici dal punto di vista giuridico e politico. Il reato di femminicidio disgraziatamente non fa eccezione. (Public Policy)

@carmelopalma

*l’autore è responsabile dell’Ufficio legislativo di Azione al Senato