Le aspirazioni del leader cinese dovranno fare i conti con i cambiamenti in corso nella popolazione. Lo dimostra anche un discorso sottovalutato di Xi su “talento” e “capitale umano”
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di Marco Valerio Lo Prete
ROMA (Public Policy) – La leadership di Xi Jinping, secondo la “risoluzione storica” approvata la settimana scorsa dal Comitato centrale del Partito comunista cinese, è “la chiave del grande ringiovanimento della nazione”. In queste parole, secondo molti analisti, è contenuto il viatico della riconferma di Xi, nel 2022, per un terzo mandato quinquennale alla guida della potenza asiatica. Nello stesso documento si legge che, sotto la guida del segretario generale sessantottenne, “il grande ringiovanimento della Nazione cinese è entrato in un processo storico irreversibile”.
Il riferimento al “ringiovanimento” non è una novità assoluta nella storia contemporanea cinese. In passato tale obiettivo è stato invocato da leader tra loro diversi come Chiang Kai-Shek, Jiang Zemin e Hu Jintao per mobilitare la popolazione verso quello che – in maniera imperfetta – può essere definito il “sogno cinese”: “L’uso di questa parola sottolinea un punto importante – ha scritto qualche anno fa lo studioso Zheng Wang del Woodrow Wilson Center – I cinesi vedono le loro fortune come un ritorno alla grandezza e non come un’ascesa che nasce dal nulla. Il ‘ringiovanimento’ infatti è profondamente radicato nella storia e nell’esperienza nazionale cinese, specie in rapporto al cosiddetto ‘secolo dell’umiliazione nazionale’ iniziato con la prima guerra dell’oppio (1839-1842) e durato fino al termine della guerra sino-giapponese del 1945. La memoria cinese di questo periodo – letto come una fase in cui il Paese è stato attaccato, oggetto di prevaricazioni e diviso dagli imperialisti – assolve la funzione di fondamento per l’identità moderna della nazionale cinese e per le sue aspirazioni”.
GLI SQUILIBRI DEMOGRAFICI CINESI E L’IMPATTO SULL’ECONOMIA
Oggi, a differenza che in precedenti fasi della storia contemporanea di Pechino, il “ringiovanimento” metafisico della nazione cinese dovrà passare necessariamente per una qualche forma di “ringiovanimento” demografico della popolazione, pena il rischio di fallimento. Denatalità e invecchiamento, infatti, sono fenomeni sempre più pervasivi nella Repubblica popolare, al punto da fare capolino praticamente in ogni seria analisi economica che riguarda la superpotenza asiatica. Perfino i sinistri scricchiolii nel mercato finanziario e immobiliare – vedi il caso Evergrande – possono essere ricondotti almeno in parte a quanto accaduto negli ultimi decenni nelle culle cinesi.
Gli economisti della Commissione europea, nelle previsioni d’autunno appena pubblicate, occupandosi dell’ex Impero celeste scrivono per esempio che “la recente instabilità nel settore immobiliare dimostra la insostenibilità del modello di business prevalente, basato su elevato indebitamento e rapido turnover. Inoltre, la domanda di abitazioni probabilmente rallenterà, indebolita dai cambiamenti demografici, da condizioni di finanziamento dei mutui più proibitive e da prezzi delle case in forte rialzo nelle città principali”. Gli esperti di Bruxelles, dopo aver legato la demografia calante alle prospettive incerte del mercato immobiliare, notano come ciò possa avere un ulteriore significativo impatto sulla capacità degli enti locali cinesi di mantenere un adeguato livello di investimenti, considerato che tali enti ottengono un terzo del loro gettito fiscale proprio dalla vendita di immobili. Né questo è l’unico ambito dell’economia cinese in cui si riflettono crescenti squilibri della popolazione locale.
Dalla futura capacità produttiva alla sostenibilità del welfare pubblico, la variabile demografica è per molti aspetti decisiva. Il tasso di fecondità medio del Paese asiatico, che negli anni Settanta era arrivato a 6 figli per donna, secondo i dati ufficiali è sceso oggi a 1,3 figli per donna. I Cinesi in età lavorativa nel 2011 erano 925 milioni, oggi – secondo l’ultimo censimento decennale – sono 894 milioni, cioè il 63,35% della popolazione totale (un calo del 6,79% in un decennio). Gli over 60, al contrario, sono aumentati nello stesso periodo del 5,4%, arrivando al 18,7% del totale. Se Pechino intende preservare il suo “dinamismo economico”, ha scritto Zhang Yun, preside del dipartimento di Economia della Fudan University di Shanghai, “dovrà impegnarsi molto per espandere la propria forza lavoro, anche tramite l’innalzamento dell’età pensionabile e incoraggiando le famiglie ad avere più figli. Altrimenti la popolazione invecchierà con le stesse modalità con cui, secondo Ernest Hemingway, una persona può andare in bancarotta: all’inizio lentamente, poi improvvisamente”.
LA NUOVA COMPETIZIONE GLOBALE PER IL “DIVIDENDO DEL TALENTO”
L’urgenza di un “ringiovanimento” demografico della popolazione si è dunque conquistata un posto nella lista di priorità della classe dirigente di Pechino. La riduzione della forza lavoro e le sproporzioni tra coorti anagrafiche sono tra i motivi che hanno spinto, per esempio, ad abrogare la storica “politica del figlio unico”, abbandonata nel 2015 e progressivamente rimpiazzata da scelte di segno opposto, cioè di incentivazione della natalità. Si tratta di scelte che, se efficaci, avranno comunque effetto nel medio-lungo termine. Nel breve periodo, invece, i vertici del Partito comunista cinese attribuiscono un’importanza crescente allo sviluppo del capitale umano già esistente. Il numero due della Commissione nazionale per la salute, Yu Xuejun, ammettendo di recente una significativa contrazione della forza lavoro negli ultimi anni, ha affermato che al dividendo demografico, conseguenza di una composizione della popolazione favorevole alla crescita, occorrerà anteporre d’ora in poi il “dividendo del talento”, frutto di una crescente scolarizzazione e formazione della forza lavoro. Lo stesso presidente Xi Jinping ha discusso in profondità il ruolo del capitale umano nello sviluppo cinese in occasione della Conferenza sul Talento a fine settembre.
Come notato da alcuni analisti, si è trattato del terzo evento di questo genere tenuto nell’arco di venti anni, dopo i precedenti del 2003 e del 2010, per la prima volta però elevato al rango di “Conferenza centrale” (e non “nazionale”) in modo da coinvolgere i massimi vertici del Partito comunista cinese. In questa sede, Xi ha detto fra l’altro: “Siamo vicini all’obiettivo del grande ringiovanimento della nazione cinese come mai lo siamo stati prima nella storia, e dunque desideriamo ardentemente acquisire talenti come mai prima nella storia. Per raggiungere il nostro obiettivo, la chiave è un elevato livello di autonomia e self-empowerment dal punto di vista scientifico e tecnologico. La competizione in termini di potere complessivo di una nazione è, in ultima analisi, la competizione per il talento. Il talento è un importante indicatore del potere nazionale complessivo di un Paese”.
Da un simile assunto, Xi nel suo discorso ha fatto discendere linee guida e indicazioni per sostenere lo sviluppo del capitale umano soprattutto nelle discipline scientifico-tecnologiche, il cosiddetto settore Stem. Un percorso peraltro già avviato con una serie di programmi specifici volti a favorire, attraverso maggiori finanziamenti, la nascita e l’ampliamento di poli universitari e di ricerca di livello globale. Coltivare talento e risorse umane, tuttavia, non è soltanto questione di stanziamenti aggiuntivi. Xi Jinping ha mostrato di esserne consapevole quando ha evocato la necessità di incentivare lo “scambio internazionale” di competenze, prefigurando una sfida con i centri di formazione terziaria anglosassoni oggi dominanti nel pianeta. Da tempo Pechino punta apertamente a far rientrare nei propri confini la sua “diaspora” di cervelli. Potrà spingersi oltre, divenendo addirittura un polo di attrazione del capitale umano altrui? Difficile a dirsi, se si considera da una parte la perdurante chiusura delle frontiere nazionali rispetto agli standard occidentali, e dall’altra la richiesta esplicita – avanzata da Xi nello stesso intervento di settembre – che i futuri talenti aderiscano ai valori ideologici del Partito comunista cinese, ovvero a una forma di “politicamente corretto” ben più intrusiva di quella che imperversa in certi campus americani e inglesi. La sfida lanciata da Pechino per il capitale umano è soltanto agli inizi. (Public Policy)
@marcovaleriolp