Il lodo Meloni non è il “whatever it takes” per l’Ucraina

0

di Carmelo Palma*

ROMA (Public Policy) – Dopo le fin troppo ottimistiche speranze suscitate dal vertice di Washington, che ha riunito, in diversi formati, le principali istituzioni nazionali e sovranazionali dell’Occidente insieme a Zelensky, offrendo un’immagine di almeno parziale unità a sostegno delle ragioni ucraine, a distanza di qualche giorno le prospettive di pace si fanno sempre più nebulose e incerte e l’impegno del fronte euro-atlantico sempre più condizionato e contraddittorio.

A Washington sembrava essersi fatta strada la proposta del Governo italiano, il cosiddetto lodo Meloni, che punta a garantire effettive condizioni di sicurezza all’Ucraina attraverso l’estensione della copertura assicurata dall’articolo 5 del Trattato Nato, pur senza un formale ingresso del paese tra i membri dell’alleanza.

Estendere le garanzie Nato a un paese non Nato, nella logica negoziale suggerita dalla diplomazia italiana, servirebbe a rispettare formalmente il veto russo all’allargamento verso est dell’Alleanza Atlantica e a risarcire l’Ucraina del sacrificio di una parte del suo territorio, che sia Putin che Trump ritengono irrinunciabile non per chiudere, ma semplicemente per aprire le trattative sui futuri assetti della regione.

Il lodo Meloni avrebbe dovuto propiziare la quadratura del cerchio, dando sia a Mosca che a Kyiv non proprio quello che dichiarano di volere, ma che potrebbero essere comunque interessati ad ottenere. Col passare dei giorni, però, la debolezza della proposta è emersa con sempre maggiore chiarezza, proprio perché a mancare sono evidentemente le condizioni politiche che dovrebbero assicurarne la credibilità.

Dal punto di vista giuridico, l’articolo 5 del Trattato Nato non stabilisce affatto che, in caso di aggressione di un paese parte dell’Alleanza, gli altri paesi siano tenuti a prestare immediato soccorso militare al paese aggredito. Stabilisce che ciascun paese debba immediatamente intraprendere “l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata”. Quel che ciascun paese considererà necessario sarà ovviamente ciò che riterrà politicamente opportuno, potendo limitare la propria azione alla fornitura di aiuti finanziari e umanitari, a una retorica perorazione delle ragioni della pace o a una richiesta di intervento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Dixi et salvavi animam meam.

A ricordare questa amara verità è stato lo stesso Trump agli altri paesi Nato prima dell’ultimo vertice dell’Aja, per estorcere loro l’impegno all’incremento delle spese militari fino al 5% del Pil entro il 2035, sia pure con modalità che nei fatti ne consentiranno la dilazione e l’aggiramento.

Nella sostanza l’articolo 5 è una garanzia solo nella misura in cui sia accompagnato da una effettiva volontà politica dei paesi membri dell’Alleanza a garantire un intervento militare marino, aereo e terrestre a sostegno dell’Ucraina in caso di aggressione da parte della Russia e della Bielorussia. Questa volontà non è né particolarmente forte, né largamente condivisa in ambito Nato, essendo limitata ai soli paesi cosiddetti “volenterosi”, e non coinvolgendo neppure quello che ha proposto l’estensione dell’articolo 5, cioè l’Italia, il cui Governo non solo ha sempre escluso e continua ad escludere un impegno militare italiano diretto, ma sostiene anche che la copertura dell’articolo 5 non implica di per sé il dispiegamento di forze militari di altri paesi sul territorio ucraino.

È come se Meloni pensasse che dichiarare l’estensione dell’articolo 5 sia come pronunciare un nuovo “Whatever it takes”. Il problema è che nel caso della strategia salva euro di Mario Draghi nel 2012 i mercati non hanno mai dubitato della credibilità dell’impegno e questo ha funzionato proprio perché tutti avevano ben chiaro che la BCE avrebbe davvero fatto tutto quello che sarebbe stato necessario e che quel tutto sarebbe stato sufficiente.

L’estensione dell’articolo 5 non istituisce, di per sé, un sistema di deterrenza altrettanto credibile e basterebbero le polemiche italo-francesi a proposito delle ennesime provocazioni del vice-premier italiano Salvini contro Macron – “Attaccati al tram. Vacci tu se vuoi. Ti metti il caschetto, il giubbetto, il fucile e vai in Ucraina” – per fare apparire questa presunta garanzia di sicurezza italiana come un inoffensivo spaventapasseri.

Il fatto che il Lodo Meloni abbia alcune evidenti debolezze endogene alla coalizione euro- atlantica (anche senza considerare il sostanziale disimpegno statunitense, il cui apporto, nella migliore delle ipotesi, sarebbe limitato ai servizi satellitari e di intelligence) rende ancora più pesanti le variabili esogene, a partire dal veto della Russia, che ha chiaramente escluso di poter accettare una pace garantita da truppe europee e Nato in territorio ucraino. Dunque, il lodo Meloni non potrebbe in ogni caso essere parte di un accordo russo-ucraino, bensì solo di un accordo euro-ucraino in funzione anti-russa, che è esattamente ciò che il Governo italiano voleva evitare.

L’influenza russa rende inservibile anche un’ulteriore garanzia di sicurezza, cioè una norma sulla carta più cogente dell’articolo 5 dello Statuto Nato, costituita dall’articolo 42, paragrafo 7 del Trattato sull’Unione Europea (TUE), che prevede che “qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite”, cioè conformemente al riconosciuto diritto di autodifesa.

Dal punto di vista giuridico questa protezione rimarrà comunque inaccessibile per l’Ucraina, fino a che permarrà il veto ungherese (un veto russo per procura) sull’ingresso del paese nell’Unione europea. Per tutte queste ragioni, è evidente che una pace negoziata alle condizioni di Mosca è destinata ad allontanarsi, anziché avvicinarsi, e che la Russia non si fermerà fino a che non sarà fermata, non avendo solo tra gli obiettivi la parziale annessione territoriale dell’Ucraina, ma l’estensione della sua area di influenza su tutto l’est europeo post-sovietico.

La Russia vuole trasformare un’Ucraina sembrata, smilitarizzata e alla mercè di Mosca in un monito per tutti i popoli irrispettosi dei diritti del Russkiy Mir. La sicurezza dell’Ucraina è l’altra faccia della sicurezza dell’Europa e passa da un impegno comune contro il progetto putiniano, non da mediazioni “terziste” tra aggressore e aggredito destinate a cronicizzare l’ordine della violenza. (Public Policy)

@carmelopalma

(foto cc Palazzo Chigi)

*l’autore è responsabile dell’Ufficio legislativo di Azione al Senato