di Daniele Venanzi
ROMA (Public Policy) – Dalle analitiche del traffico web globale elaborate da Semrush emerge che ChatGPT occupa ormai la quinta posizione tra i siti più visitati al mondo, con oltre 5 miliardi di accessi nel solo mese di maggio. Difficile indicare il numero di utenti attivi mensilmente, se non dando per buone le dichiarazioni di Sam Altman, CEO di OpenAI, azienda sviluppatrice del chatbot, che ad aprile ha suggerito alla stampa cifre vicine agli 800 milioni. Stando ai numeri forniti, circa il 10% della popolazione mondiale ricorre al servizio. Tuttavia, a detta del direttore operativo di OpenAI Brad Lightcap, appena 11 milioni sono gli abbonati al piano plus del chatbot, ossia l’1,3% di tutta la base utenti. A questi, vanno sommati i 3 milioni di sottoscrittori dei più costosi piani dedicati a team e aziende, ma si tratta pur sempre di numeri contenuti per incidenza sul totale dei fruitori, dai cui abbonamenti l’azienda trae il 75% dei suoi proventi. Paradossalmente, proprio sugli esosi piani Pro da 200 dollari al mese la startup continua a perdere denaro, per ammissione dello stesso Altman, per via di costi di gestione così elevati da rendere gli incassi non sufficienti a coprire le spese.
Con una quantità esigua di utenti paganti e costi di gestione e spese esorbitanti, appaiono evidenti le ragioni per cui il modello di business dell’intelligenza artificiale più diffusa al mondo fatica a ingranare. OpenAI, infatti, ha chiuso il 2024 con 3,7 miliardi di dollari di entrate e 5 miliardi di perdite nette e l’azienda stessa prospetta di non generare profitti fino al 2029. Si paventano, dunque, almeno altri quattro anni di attesa a bocca asciutta per gli investitori, stando a previsioni che implicano comunque avanzamenti della tecnologia tali da rendere più efficiente ed economica l’erogazione del servizio. Sul fronte delle spese, infatti, appare improbabile che, in un orizzonte temporale così breve, possano contrarsi a tal punto i costi da affrontare per alimentare la macchina, affamata com’è di energia e potenza di calcolo.
A tal riguardo, il costo da sostenere per garantire la sola potenza di calcolo necessaria ad addestrare i modelli di AI dell’azienda ammonta a 3 miliardi di dollari: cifra che supera di gran lunga l’intero fatturato derivante dagli abbonamenti. A questa, si aggiunge la potenza di calcolo volta semplicemente a eseguire i modelli che, con un costo di 2 miliardi, assorbe ed eccede il rimanente delle entrate. In sostanza, eseguire ChatGPT comporta costi che eccedono i proventi di più di un miliardo, con l’aggiunta di un significativo esborso di 700 milioni per il pagamento degli stipendi. Ciononostante, l’azienda continua a raccogliere ingenti capitali per sostenere investimenti ragguardevoli – per l’esattezza, 20 miliardi dalla sua fondazione nel 2015. È il caso dell’avveniristico progetto Stargate, joint venture annunciata lo scorso gennaio in una conferenza stampa alla Casa Bianca da Donald Trump, Sam Altman, Masayaoshi Son di Softbank e Larry Ellison di Oracle. La neonata azienda, di cui OpenAI detiene il 40% delle quote e che vanta anche la partecipazione di Microsoft e del fondo emiratino MGX, costerà almeno 500 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni: una cifra monstre che le è valso il soprannome di “nuovo progetto Manhattan” per la mole di fondi stanziati.
La storia del venture capital è costellata di illustri casi di startup che, nei primi anni di vita, bruciavano milioni di dollari al mese, salvo poi diventare colossi dell’industria. Si pensi, su tutte, ad Amazon, che perse complessivamente 2,8 miliardi di dollari nei suoi primi 17 trimestri da società quotata in borsa. Tuttavia, nel caso dell’AI, la tendenza all’emorragia di bilancio sembra estendersi all’intero settore, segnalandone, allo stato attuale, la scarsissima sostenibilità finanziaria. Perplexity, ad esempio, startup spesso considerata un unicorno, presenta in realtà un bilancio molto modesto: a dispetto di una valutazione di circa 18 miliardi di dollari, registra appena 34 milioni di ricavi a fronte di spese per 57 milioni. In rosso anche la più grande Anthropic, sviluppatrice del popolare chatbot Claude. Anche in questo caso, a fronte di una valutazione da oltre 61 miliardi, l’azienda non risulta in attivo, con ricavi da 918 milioni obliterati da perdite nette per circa 5,6 miliardi e l’intenzione resa nota dal suo CEO di dimezzare i costi per il 2025, al fine di contenere l’emorragia. La situazione appare immutata per altri grandi player, come Cohere o Mistral, tutti indistintamente non remunerativi.
Il settore, in definitiva, presenta tutte le caratteristiche proprie delle bolle finanziarie. A suonare il campanello d’allarme è anche il Financial Times, con un editoriale di ampia diffusione e dal titolo eloquente: “i ritorni dell’AI ancora non ne giustificano gli investimenti”. Un’affermazione incontestabile, che esprime perplessità riguardo operazioni apparentemente indecifrabili, come quella con cui Mark Zuckerberg intende ampliare massicciamente la divisione AI di Meta al fine di sviluppare il vago concetto della “Superintelligence”: una manovra che, tramite l’acquisizione del 49% di Scale AI, è già costata oltre 13 miliardi di dollari, a cui si aggiungono i bonus da capogiro promessi alle menti migliori di OpenAI disposte a cambiare casacca. Per finanziare il progetto, la società californiana punta a raccogliere investimenti per 29 miliardi. Già un anno fa, ad analisti ed esperti del settore, la situazione appariva in tutta la sua criticità. Uno studio di Goldman Sachs di giugno 2024, riportato nella citata analisi del Financial Times, avvertiva infatti dell’alta probabilità che le aziende che stanno investendo, complessivamente, più di mille miliardi di dollari nello sviluppo di AI generative non saranno mai in grado di generare profitti. A questa valutazione faceva eco la previsione di un partner di Sequoia, società californiana di venture capital, secondo cui le aziende del settore avrebbero dovuto generare 600 miliardi di dollari di entrate extra solo nel 2024 per giustificare la loro spesa in capitale aggiuntiva: una cifra sei volte superiore a quanto avrebbero raccolto.
A distanza di un anno, il quadro appare invariato, con i colossi del settore che continuano ad aumentare vorticosamente le loro spese in conto capitale. All’inizio di quest’anno, i principali player avevano in programma di aumentare gli investimenti di altri 75 miliardi di dollari, dopo averli incrementati di 95 miliardi nel 2024. Eppure, si registra un aumento dei ricavi misurato solo nell’ordine delle decine di miliardi, non delle centinaia. Eloquente il caso di Microsoft, che a inizio 2025 ha dichiarato che il suo tasso di ricavo annualizzato dall’AI è aumentato del 175%, raggiungendo i 13 miliardi di dollari. Peccato che rappresentino solo il 5% del ricavo totale che l’azienda prevede per l’anno in corso. Nel frattempo, Bank of America Securities stima che la spesa complessiva per i data center aumenterà da 333 miliardi di dollari del 2023 a circa 1 trilione entro il 2030, con l’83% di tale importo destinato a investimenti in AI; un’indicazione chiara di come i costi per mantenere una macchina dai connotati leviatanici non sembrano affatto destinati a contrarsi, dimostrando che l’enorme divario tra spese e ricavi è destinato a rimanere incredibilmente ampio per diversi anni a venire. (Public Policy)
@danielevenanzi