di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – Dal risultato delle elezioni britanniche si potrebbe erroneamente concludere che a fare chiarezza politica sull’esito del voto concorra, in primo luogo, la chiarezza del sistema elettorale. È il first-past-the-post del sistema uninominale secco, con cui votano i sudditi di Sua Maestà, a produrre risultati chiari e maggioranze politiche indiscusse? Se si guarda alla storia recente del Regno Unito si vedrà che questa ipotesi ha ricevuto due solenni smentite. Dal 2010 al 2015 il Paese venne governato da una coalizione tra conservatori e liberali, proprio perché nessun partito da solo, malgrado il sistema ultra-maggioritario, aveva raccolto la maggioranza dei seggi a Westminster. Allo stesso modo, dopo le elezioni del 2017, i conservatori per governare dovettero contare sul sostegno esterno alla Camera dei Comuni del Partito Unionista Democratico nord irlandese. Successivamente il sistema politico britannico è tornato al suo funzionamento atteso, prima con maggioranza fortissime di stampo conservatrice e ieri con un altrettanto forte successo dei laburisti.
Ma non si può dire certo che una legge elettorale particolarmente costrittiva abbia sempre impedito l’instabilità del quadro politico. Anche la Francia, che nel fine settimana andrà ai ballottaggi per l’Assemblea nazionale, malgrado un sistema elettorale in apparenza ancora più stabilizzante, esce da una legislatura confusa e rocambolesca, in cui la coalizione macroniana ha dovuto governare senza la maggioranza assoluta in Parlamento, grazie ad appoggi esterni e a una compagine decisamente raccogliticcia. Se i sistemi elettorali non sono quindi tali da determinare un esito quantitativamente certo, non si sono neppure dimostrati in grado di influenzare qualitativamente i processi politici secondo le intenzioni del legislatore.
Trent’anni fa, quando il dibattito sulle riforme raggiunse in Italia l’acme politico-referendario, era credenza diffusa, suffragata peraltro da una letteratura scientifica copiosa, che il sistema elettorale maggioritario – quello classico, di collegio, a uno o due turni – producesse di per sé effetti virtuosi sul comportamento di voto degli elettori e sulla responsabilizzazione degli eletti. Si pensava cioè che avrebbe arginato, anche sul piano della finanza pubblica, gli effetti di una rappresentanza micro-particolaristica e avrebbe orientato le forze di governo in direzione dell’elettore mediano, con offerte politiche cui proprio il vincolo maggioritario imponeva di essere insieme moderate e inclusive.
Quello che nel frattempo è successo non solo in Italia, ma anche nelle democrazie maggioritarie di più antico lignaggio – Stati Uniti, Regno Unito e Francia – ha dimostrato che la polarizzazione elettorale è diventata invece il framework di una radicale estremizzazione politico-ideologica. Il maggioritario è diventato il paradiso degli estremisti. Basti vedere quali sono a destra e a sinistra i partiti che domenica si giocheranno i ballottaggi in Francia. Quel che doveva produrre la convergenza al centro parrebbe avere favorito la divergenza alle estreme, ma anche in questo caso è difficile riconoscere alla legge elettorale la natura di una causa; piuttosto quella di una infrastruttura che, a dispetto di una formale rigidità, è sostanzialmente adattabile sotto la spinta delle più varie e tendenzialmente sempre più disgregative dinamiche politiche.
Anche in Italia, abbiamo avuto un esempio plastico di questa eterogenesi dei fini dell’ortopedia istituzionale con il risultato delle politiche del 2013, in cui una legge elettorale (il proporzionale con premio di maggioranza) strettamente bipolare non ha impedito la formazione di un sistema politico quasi perfettamente tripolarizzato. D’altra parte è altissimo, per non dire democraticamente insostenibile, il prezzo da pagare per predeterminare maggioranze parlamentari garantite e scongiurare l’apparente disordine connesso a esiti elettorali imprevisti o centrifughi rispetto alla logica del sistema.
Il prezzo è infatti quello di trasformare l’elezione del Parlamento, cioè la modalità di composizione del potere legislativo, in un sottoprodotto del processo di formazione del potere esecutivo. Che è quanto, in ossequio al principio della divisione dei poteri, non avviene in nessuna democrazia del mondo – neppure le più presidenziali – ma che avverrebbe in Italia, se venisse definitivamente approvata la riforma del cosiddetto premierato elettivo. Peraltro, anche questo tentativo di collegare in modo costrittivo l’elezione del capo del Governo a quella del Parlamento non neutralizzerebbe, ma accrescerebbe gli effetti disgregativi e paralizzanti dell’iperpolarizzazione politica e subordinerebbe il funzionamento del Parlamento agli esiti di un’ordalia plebiscitaria pressoché permanente, anche se latente, e catalizzata dal momento elettorale.
Forse è troppo dire che l’iperpolarizzazione maggioritaria è stata una causa della degenerazione populista delle democrazie (Wilders, ad esempio, ha trionfato in Olanda con un sistema proporzionale). Ma ci sono ormai abbastanza prove per affermare che il maggioritario è una promessa illusoria di stabilità e “normalità” politica.
@carmelopalma