Il “Whatever it takes” della Difesa europea parte dall’anno zero

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di Carmelo Palma*

ROMA (Public Policy) – Il progetto Rearm Europe presentato dalla presidente della Commissione Ursula Von Der Leyen è stato accolto in Italia con diffidenza o ostilità. Il Governo di Giorgia Meloni è stato, per così dire, in scia ai principali Paesi europei, rimanendo a distanza di sicurezza e lasciandosi aperte ampie vie di fuga, con un sostegno critico e condizionato.

Per la presidente del Consiglio pesa l’esigenza di non rompere il filo che continua a legarla politicamente a Washington, malgrado la rottura radicale degli Usa con l’Unione europea, e di non giungere allo scontro con Salvini, che contro il Rearm Europe e i suoi maggiori promotori, Francia e Germania, si è espresso in modo sprezzante e contro il presidente francese, fulcro di questo progetto, in modo irridente: “Mai un esercito europeo comandato da quel matto di Macron”. Il principale partito di opposizione, il Pd, contro la linea del PSE, ha dichiarato la propria contrarietà in base a una motivazione così sintetizzata da Elly Schlein: “Sì a una difesa europea no, a un riarmo nazionale”, che è tanto politicamente pretestuosa, quanto tecnicamente scorretta, visto che al momento – come vedremo – mancano nell’ordinamento europeo sia le infrastrutture istituzionali che quelle finanziarie indispensabili per supportare un’ancorché parziale “europeizzazione” delle politiche di difesa e di sicurezza.

Dal progetto della CED (Comunità Europea di Difesa) dell’inizio degli anni ’50 ad oggi ogni tentativo di avvicinare questo obiettivo è stato ostacolato dalle stesse ragioni che hanno impedito la costituzione di un’Europa politica, a partire dalla persuasione fallace che le questioni “di vita e di morte” per i cittadini degli stati membri non potessero uscire, a pena di rischi fatali, dal perimetro della sovranità nazionale. Per questa ragione, le forme di cooperazione e di coordinamento sui temi della difesa sono state nei decenni occasionali e tutt’altro che significative, visto che su questo piano il principio dell’unanimità – che è il crisma necessario per ogni decisione in materia di politica estera – non ha garantito agli stati membri nulla di positivo, e moltissimo di negativo: di campare singolarmente di rendita sulla tutela statunitense, anche dopo la fine dell’epoca dei blocchi, e di usare sia la spesa militare che l’industria della difesa come strumento di potere interno e di influenza nazionale e non di contenimento di un pericolo esterno e di raggiungimento di condizioni di sicurezza comune. Il risultato è che, come è noto, i Paesi europei hanno speso in media per la difesa sia molto meno, sia molto peggio di quanto avrebbero dovuto.

Secondo l’Osservatorio dei conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano i Paesi membri dell’Ue hanno speso a parità di potere d’acquisto significativamente di più della Russia: 547 miliardi di dollari contro 462. Se insieme ai Paesi Ue (molti dei quali, come Italia, Germania e Spagna, rimangono lontani dal vecchio e ormai superato obiettivo del 2% del Pil) si considerano anche altri Paesi europei membri della Nato (come il Regno Unito), la spesa europea sale a 719 miliardi. La situazione però è meno positiva di quanto appaia, perché i Paesi europei hanno deteriorato alcune capacità militari convenzionali, centrali nella guerra in Ucraina, anche per la riconversione dell’apparato militare a funzioni diverse – ad esempio il peacekeeping – da quelle della difesa territoriale. Questo, unito alla difficoltà degli approvvigionamenti per una guerra lunga e dispendiosa per i contingenti e le dotazioni impiegate, rende l’Europa oltremodo vulnerabile.

Nei vent’anni precedenti l’invasione dell’Ucraina, secondo l’ISPI, si sono dimezzati gli effettivi degli eserciti europei e si sono ridotte in maniera ancora più forte le scorte di armi e di mezzi, che è difficile ricostituire in tempi rapidi. Parlare di difesa comune significa parlare concretamente dell’integrazione di contingenti e investimenti militari sotto un comando politico e operativo comune, non di un framework di coordinamento per interventi ad hoc. Questo in teoria già esiste, ma purtroppo non serve a niente. La politica di sicurezza e difesa comune (PSDC) dell’UE è parte della Politica estera e di sicurezza comune (PESC), è disciplinata dall’articolo 42 del Trattato sull’Unione europea (TUE) e attua decisioni adottate all’unanimità dal Consiglio europeo.

È sufficiente leggere il primo paragrafo dell’articolo 43 del TUE per capire che l’operatività militare europea è pensata in rapporto a emergenze che non sono rappresentate dalla difesa dell’Unione e dei Paesi membri da un’aggressione bellica: “Le missioni … nelle quali l’Unione può ricorrere a mezzi civili e militari comprendono le azioni congiunte in materia di disarmo, le missioni umanitarie e di soccorso, le missioni di consulenza e assistenza in materia militare, le missioni di prevenzione dei conflitti e di mantenimento della pace e le missioni di unità di combattimento per la gestione delle crisi, comprese le missioni tese al ristabilimento della pace e le operazioni di stabilizzazione al termine dei conflitti”. Lo stesso articolo del Trattato che disciplina la politica di sicurezza politica di sicurezza e difesa comune, prevede che “gli Stati membri che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari e che hanno sottoscritto impegni più vincolanti in materia ai fini delle missioni più impegnative instaurano una cooperazione strutturata permanente (PESCO) nell’ambito dell’Unione”.

Tale strumento è stato attivato nel 2017 e vi partecipano ormai, dopo l’ingresso della Danimarca, tutti i Paesi Ue, tranne Malta, e la sua operatività, disciplinata dall’articolo 46 del TUE, è stata in questi anni finalizzata in parte alla cooperazione per il rafforzamento delle capacità militari e per l’ammodernamento tecnologico, in parte per missioni militari di intervento o più spesso di addestramento in Paesi terzi. Anche in questo caso, qualcosa di diversissimo dall’organizzazione della difesa dei confini europei e dell’integrità e sovranità dei Paesi membri. Di conseguenza i fondi europei dedicati a queste attività fin dall’inizio sono stati di una manciata di miliardi all’anno: praticamente niente.

Di fatto, siamo all’anno zero, con l’ulteriore complicazione di dovere recuperare rapidamente il tempo perduto per la contemporanea emergenza di una gravissima minaccia, rappresentata dalla Russia e della revoca della tradizionale protezione degli Usa e di fatto anche della Nato, di cui Trump non solo ha paralizzato l’azione, ma ha anche neutralizzato il potere di deterrenza. Che spazi ci sono oggi nei trattati o al fuori dei trattati che regolano l’architettura e il funzionamento dell’Ue per costruire la base giuridica e il contenuto economico per una politica di difesa europea? Quella sorta di comma 22 dei trattati rappresentato dalla necessità di superare il voto all’unanimità nel Consiglio europeo e dalla possibilità di farlo solo all’unanimità appare insuperabile in questo campo, perché l’articolo 48 del TUE esclude le decisioni con implicazioni militari e nel campo della difesa anche dalla cosiddetta “clausola passerella”, per introdurre una modifica di una procedura decisionale senza la modifica diretta dei trattati.

Esistono ovviamente delle alternative, che però sono di complicata implementazione: o perché implicano la costruzione di una sorta di struttura parallela all’Ue, o perché comportano l’utilizzo di strumenti istituzionali disponibili in una direzione sostanzialmente diversa da quella per cui erano stati immaginati o fino ad oggi utilizzati. Sulla base degli articoli 42 e 46 del Trattato sull’Unione europea (TUE), gli Stati disponibili potrebbero decidere di varare una cooperazione strutturata permanente avente come oggetto l’istituzione di un sistema di difesa militare comune.

Questa decisione dovrebbe essere ratificata dal Consiglio dell’Unione europea a maggioranza qualificata e non all’unanimità, e il funzionamento di questo strumento di cooperazione implicherebbe per ogni decisione in campo militare solo l’unanimità degli Stati che vi partecipano. Sarebbe, per le ragioni già spiegate, una cooperazione permanente molto diversa da quella esistente. Un altro strumento di cui ci si potrebbe avvalere è quello della cooperazione rafforzata, che l’articolo 329 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) prevede si possa estendere, in deroga al principio generale, alle cooperazioni nel campo della politica estera e di sicurezza. Una cooperazione rafforzata può essere promossa da almeno nove Paesi, ma il problema è che la deliberazione di autorizzazione da parte del Consiglio dell’Unione europea dovrebbe essere assunta all’unanimità dei Paesi membri. Orban voterebbe a favore? Certamente no.

Una terza via è rappresentata da un trattato parallelo e separato. Non sarebbe un programma straordinario dell’Ue, come il Next Generation Ue, che fu approvato all’unanimità dal Consiglio dell’Unione europea nel 2020, come prescrive l’articolo 311 del TFUE quando le decisioni riguardano le risorse proprie dell’Unione. Sarebbe invece qualcosa di simile invece all’Accordo di Schengen sull’abolizione dei controlli alle frontiere interne, entrato in vigore nel 1995 per sette Paesi membri (Francia, Germania Ovest, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Spagna e Portogallo) e successivamente allargatosi a quasi tutti i Paesi Ue e ad altri non Ue.

Anche questa soluzione presenta però evidenti problemi. La catena di comando non potrebbe comprendere le istituzioni democratiche dell’Ue (Parlamento e Commissione) e inoltre non rappresenterebbe l’avanguardia di un processo destinato a estendersi a tutti i Paesi membri. Immaginare un’Ue a due velocità non incontra solo la difficoltà che non tutti i Paesi membri rispettano lo stesso ritmo nel processo di integrazione, ma anche quella che alcuni Paesi si muovono molto rapidamente in una direzione diversa da quella di una maggiore integrazione. In ogni caso, se anche il “Whatever it takes” della difesa europea parte dall’anno zero, ha assai poco senso usare le sue criticità per non prendere atto della sua necessità, che oggi può essere temporaneamente corrisposta – vista l’urgenza del sostegno alla difesa dell’Ucraina e del potenziamento della difesa dalla Russia – solo con il rafforzamento e la progressiva convergenza di un gruppo di Stati “volonterosi”. (Public Policy)

@CarmeloPalma

(foto cc Palazzo Chigi – la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, all’ultimo Consiglio europeo straordinario)

*l’autore è responsabile dell’Ufficio legislativo di Azione al Senato