La lotta all’inflazione non sarà un pranzo di gala

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Perché l’incremento dei prezzi potrebbe portare con sé nuove forme di conflittualità politica e istituzionale, con al centro i banchieri centrali

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di Marco Valerio Lo Prete

ROMA (Public Policy) – La vita della tipica rockstar è per definizione tormentata. La sua fine, in alcuni casi, è addirittura tragica. Farebbero bene a tenerlo a mente i banchieri centrali che, negli ultimi anni, sono stati esplicitamente paragonati alle stelle della musica e dello spettacolo. Dal crack finanziario statunitense del 2008 all’insorgere della pandemia nel 2020, passando per la crisi del debito sovrano nell’Eurozona, gli artefici della politica monetaria sono finiti di frequente sotto i riflettori. I giornali li hanno descritti come seduti “al posto del guidatore” nella corsa intrapresa dalle autorità pubbliche per salvare l’economia, mentre Governi e investitori erano declassati al ruolo di passeggeri inerti sul sedile posteriore della stessa automobile immaginaria. Le politiche non convenzionali forgiate dai banchieri sono state spesso definite come l’unica opzione a disposizione, “the only game in town” si è ripetuto. Adesso però l’affacciarsi dell’inflazione sullo scenario mondiale rischia di cambiare le carte in tavola per gli alchimisti della moneta. L’agenda delle Banche centrali potrebbe all’improvviso mutare, ha ipotizzato Alberto Mingardi in un editoriale sul Corriere della Sera dello scorso 6 dicembre. Concentrandosi sulla “traiettoria di crescita del potere di queste istituzioni”, confermata negli ultimi mesi da interventi su argomenti pur diversi come le valute digitali o i rischi finanziari legati al cambiamento climatico, Mingardi scrive, en passant: “Sempre che la necessità di governare l’inflazione nei prossimi mesi non riporti i banchieri centrali, per quanto controvoglia, a fare il loro mestiere”, cioè assicurare la stabilità dei prezzi. Tuttavia, aggiungiamo noi, sottrarsi ai riflettori non è mai semplice né indolore. Vediamo perché.

BANCHIERI CENTRALI VS BANCHIERI CENTRALI

La natura stessa dell’inflazione registrata nelle principali economie occidentali è argomento di discussione nelle Banche centrali. La vulgata dell’inflazione “temporanea”, figlia cioè di momentanei incrementi di prezzi energetici e passeggere strozzature dell’offerta, è forse più rassicurante ma sempre meno condivisa. Lo scorso 30 novembre il governatore della Fed, Jerome Powell, ha detto che il termine “transitorio” nel dibattito sull’inflazione andrebbe abbandonato, mentre solo poche ore prima la presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, insisteva nel descrivere l’aumento dei prezzi come “legato a fenomeni temporanei”. Il cleavage terminologico prefigura una possibile divaricazione delle politiche future tra le due sponde dell’Atlantico, un elemento ulteriore di complicazione per investitori e policy-makers. Senza contare che anche in seno alla Bce iniziano a manifestarsi visioni confliggenti sull’approccio di politica monetaria da prediligere.

BANCHIERI CENTRALI VS GOVERNI

Nelle cancellerie europee, però, è un’altra la conflittualità più temuta che potrebbe essere riaccesa dall’inflazione. Negli ultimi anni, in tutti i momenti più critici per la congiuntura, i ministri dell’Economia e delle finanze e i banchieri centrali hanno formato una Santa alleanza che ormai siamo portati a dare per scontata. Con le loro scelte, gli Istituti centrali hanno ridotto tra l’altro in modo significativo il costo dell’indebitamento per i vari Governi. Nel caso europeo, addirittura, il “whatever it takes” di Mario Draghi nel 2012 ha allontanato la moneta unica dal precipizio in cui stava per finire, supplendo alla mancanza di una unione fiscale nell’Eurozona. Nel caso specifico dell’Italia, complici gli interventi di Francoforte, il tasso medio dei titoli di Stato calcolato all’emissione è sceso da oltre il 4% prima dello shock finanziario del 2008 (e dal 3,6% nel 2011 all’apice della crisi del debito sovrano) fino allo 0,10% di oggi. Risultato: nel 2012 lo Stato italiano pagava 85 miliardi di euro per interessi passivi del debito pubblico (5,2% del Pil), nel 2020 il debito pubblico è cresciuto ma nonostante questo la spesa per interessi è scesa a 57 miliardi (3,5% del Pil). Grazie alla Santa alleanza con la Bce, il Governo italiano quest’anno ha risparmiato quasi 30 miliardi di euro rispetto al 2012. Una cifra nient’affatto trascurabile, considerato che la legge di Bilancio oggi al vaglio del Parlamento vale circa 25 miliardi.

La minaccia di un’inflazione persistente, spingendo la Bce ad alzare il pedale dall’acceleratore dell’espansione monetaria, potrebbe mettere fine all’idillio con il Tesoro di Roma e di altre capitali del continente, peraltro all’indomani di una fase pandemica alla quale si è risposto con ulteriore indebitamento. Uno scenario da far tremare le vene ai polsi, non solo nei dicasteri economici. Di conseguenza, se si avvicinasse una stretta monetaria, è da mettere in conto un aumento delle pressioni politiche sulle Banche centrali, in barba alle promesse e alle dichiarazioni di indipendenza della politica monetaria.

GOVERNI VS GOVERNI

Nell’ipotesi di una rinnovata tensione tra Governi e Banche centrali, come ovvio, contingenze economiche e sensibilità politico-culturali nazionali non saranno omogenee a livello continentale e dunque favoriranno un’ulteriore forma di conflittualità tra Stati dell’Eurozona. La Germania, per esempio, è tra i Paesi in cui l’allarme per il rischio-inflazione trova maggiore ascolto. “L’inflazione alimenta legittime preoccupazioni”, ha scritto sui social il neo ministro delle Finanze, il liberale Christian Lindner. Il presidente uscente della Bundesbank, Jens Weidmann, di fronte a una stima di un incremento dei prezzi del 6% nel mese di novembre, ha già messo in guardia dal rischio di una spirale inflattiva: “In futuro tali tensioni nel mercato del lavoro potrebbero far sì che datori di lavoro e sindacati spingano per salari notevolmente più alti”. Osservatori come Wolfgang Münchau non mancano di indicare segnali che vanno in tal senso, come “il primo grande accordo salariale nel nuovo mondo post-disinflazione”, quello appena siglato per oltre un milione e centomila dipendenti pubblici dei Länder tedeschi, che prevede un incremento salariale all’incirca del 3,5%. Né, secondo alcuni analisti tedeschi, gli accordi salariali sono l’unico canale di trasmissione della pressione sui prezzi. Gabriel Felbermayr, economista e presidente del think tank WIFO, sul quotidiano tedesco FAZ ha scritto che le misure prospettate nel nuovo accordo di Governo tra Socialdemocratici, Verdi e Liberali tedeschi potrebbero costringere a una correzione di rotta della politica monetaria. Il promesso boom di investimenti, infatti, calato nella realtà di una società in rapido invecchiamento e con colli di bottiglia di vario tipo sul lato dell’offerta, rischia di generare un eccessivo surriscaldamento dei prezzi in tutta l’Eurozona.

Il punto è che la Banca centrale europea non si troverà, con ogni probabilità, soltanto di fronte a pressioni “made in Deutschland”. Si pensi alla posizione del nostro Paese, ben diversa da quella tedesca. Di recente non a caso Fabio Panetta, membro italiano del comitato esecutivo della Bce, in un’intervista al Foglio ha sottolineato l’importanza di “spiegare all’opinione pubblica perché, di fronte a un’inflazione superiore al nostro obiettivo del 2%, la Bce non sta intervenendo. E la risposta è semplice. Non stiamo intervenendo perché se lo facessimo creeremmo più danni che benefici: non riusciremmo a intervenire sulle cause dell’inflazione, non riusciremmo a evitare l’erosione del potere d’acquisto dei lavoratori, ma determineremmo un rallentamento dei consumi, degli investimenti, dell’occupazione”. Inoltre, come ha scritto Luca Ricolfi su Repubblica lo scorso 1° dicembre, è “difficile pensare che in questa partita l’Italia si schieri a favore dei nemici dell’inflazione. Chiunque ci governerà, sarà ben consapevole che un po’ d’inflazione fa bene ai conti pubblici”, contenendo il rapporto debito pubblico/Pil attraverso una spinta al Pil nominale. La conflittualità attorno all’inflazione, peraltro giustamente definita da Luigi Einaudi “la più iniqua delle tasse” nella prospettiva del contribuente, è soltanto agli inizi. (Public Policy)

@marcovaleriolp