di Leopoldo Papi
ROMA (Public Policy) – Le caotiche politiche commerciali di Donald Trump possono solo portare al caos economico”. Esordisce drastico con questa affermazione Martin Wolf, commentatore di punta del Financial Times sulle iniziative protezionistiche del presidente degli Stati Uniti, nel suo ultimo editoriale. Nell’articolo Wolf si interroga, come molti altri, in interventi sempre più frequenti e espliciti, sui piani di Trump e sulle loro conseguenze per l’ordine economico, finanziario e politico internazionale. Al centro della questione, la funzione del dollaro americano di moneta di riserva globale (e dei titoli americani come asset sicuri di risparmio), e se tale ruolo sia compatibile con le politiche protezionistiche invocate dall’amministrazione americana per proteggere e rilanciare la manifattura interna.
Public Policy ne parla con Giovanni Tria, economista, già ministro dell’Economia.
D. Che obiettivi ha Trump?
R. Sembra che punti a un cambiamento di quello che viene chiamato l’ordine globale. Cioè il sistema di relazioni basato su quello che Giscard d’Estaing aveva definito il “privilegio esorbitante” del dollaro, dato dal ruolo della moneta americana di riferimento negli scambi e nelle riserve internazionali, che consente agli Stati Uniti di finanziarsi a un costo molto basso. Fino a qualche mese fa l’accusa di voler modificare questo assetto era rivolta alla Cina e ai paesi Brics. Ora sembra essere Trump a giocare d’anticipo e cercare di attaccare questo sistema, sostenendo che per gli Stati Uniti il ruolo internazionale del dollaro non è un privilegio ma un servizio offerto al resto del mondo, e quindi un ‘peso’ per il quale dunque gli Stati Uniti devono essere ricompensati dagli altri Paesi che ne beneficiano.
D. In che senso il ruolo del dollaro può essere considerato “un peso” per gli Stati Uniti, dal punto di vista di Trump?
R. La questione ruota intorno al deficit commerciale americano, e al fatto che non ne consegua un deprezzamento del dollaro, che dovrebbe consentire di eliminare lo squilibrio della bilancia commerciale. Ciò avviene perché, essendo il dollaro la moneta internazionale, il risparmio del mondo tende ad andare verso gli Stati Uniti e verso i treasury bond che sono considerati dei safe asset internazionali. Questo impedisce l’aggiustamento del dollaro e fa sì che la bilancia commerciale venga finanziata dal resto del mondo che manda i propri risparmi negli Stati Uniti. Trump di fronte a questa dinamica dice: è vero che il non deprezzamento del dollaro ci impedisce l’aggiustamento della bilancia commerciale ma il problema è che noi siamo costretti a subire questa situazione, perchè dobbiamo offrire il dollaro al resto del mondo, e questo è un peso.
D. Per Trump quindi i dazi sono uno strumento per porre rimedio a questo squilibrio. Cosa ne pensa?
R. Mi sembra un’idea un po’ imperiale. In sostanza, mi pare che l’idea di Trump sia: ‘Io metto i dazi, voi ci dovete pagare prima l’ombrello della difesa globale, e addirittura dovete continuare a usare il dollaro, pagandoci anche per il suo utilizzo. Ecco questa sembra la sua strategia. Gli americani sembrano dire: ‘noi forniamo il dollaro al mondo e questo non è più un privilegio ma è un peso per noi, e in più spendiamo un sacco di soldi come spesa militare per offrire il nostro ombrello difensivo a una serie di paesi, a questo punto ci dovete pagare’. Ovviamente questa narrazione non tiene conto del fatto che i maggiori detentori del dollaro sono i paesi asiatici e la Cina, che certamente non sono sotto la protezione dell’ombrello militare americano. Inoltre è un rovesciamento della visione che ha avuto finora il resto del mondo sulla sostenibilità di lungo periodo del ruolo internazionale del dollaro, che si basa sulle aspettative che non venga messa in dubbio la sostenibilità fiscale del debito americano. Tornando ai dazi e alle altre misure di Trump, se questa è la strategia, c’è da discutere se possa in qualche modo funzionare.
D. E le politiche di Trump possono funzionare?
R. Trump e i suoi consiglieri come detto rovesciano la discussione, definendo il dollaro un peso invece che un privilegio. Le soluzioni che propongono sono, oltre ai dazi, la richiesta al mondo di vendere dollari per far deprezzare la moneta e convertire le riserve di titoli a breve o di dollari, in titoli secolari a lungo termine, in una specie di operazione di consolidamento del debito americano pagato dal resto del mondo. Perché dovrebbero farlo gli altri è il punto interrogativo. Trump pensa di poter indurre gli altri Paesi ad accettare queste condizioni minacciandoli con i dazi, o sostenendo che gli Usa sono il più grande mercato, in cui nessuno potrà andare più a vendere se in qualche modo non accetta la sua impostazione. E poi dichiarando che chi non accetta non solo di aumentare le spese militari, ma anche tutto questo nuovo assetto, sarà fuori dall’ombrello difensivo americano. Il problema è che la gran parte del mondo non sta sotto l’ombrello americano. E soprattutto, ormai, la gran parte dei paesi emergenti, i Brics, già mettono in discussione – pur entro certi limiti – il ruolo del dollaro.
D. C’è il rischio che si inneschi una nuova crisi finanziaria, legata a un disinvestimento dal dollaro?
R. Una crisi di disinvestimento dal dollaro è difficile perché significherebbe, per chi detiene questa massa enorme di valuta americana in giro per il mondo, vederla perdere di valore. La Cina non ha mai reagito cercando di vendere dollari perché avrebbe fatto crollare il valore delle proprie riserve ufficiali, oltre al fatto che una svalutazione della moneta americana non gli conviene, se vogliono vendere verso gli Stati Uniti. È difficile comunque capire cosa succederà, perché poi la strategia non è ancora stata davvero attuata da Trump. Finora sembra ci siano stati soprattutto tentativi di saggiare le reazioni dei mercati e del resto del mondo alle minacce di dazi e guerre commerciali.
D. L’Europa può rendersi più autonoma dal sistema economico e politico di relazioni atlantiche?
R. Non nel breve tempo. Io credo che la risposta sia quella di ampliare di più il libero mercato nel senso di cominciare a guardare non solo agli Stati Uniti ma all’Asia, alla Cina, ai Brics e al resto del mondo. La risposta deve essere quella di cercare una maggior liberalizzazione del commercio internazionale in altre direzioni. Questa è la vera risposta da dare a Trump, più che seguirlo nello scontro con i dazi. Perché nelle guerre commerciali, come in tutte le guerre, anche le guerre militari, perdono tutti. Poi c’è quello che perde meno e quello che perde di più, c’è quello che perde meno e che si dichiara vincitore, che tuttavia ha pur sempre perso.
@leopoldopapi