LEGGE ELETTORALE, LETTA TRA DOPPIO TURNO PD E PRESIDENZIALISMO PDL /FOCUS

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leggeelettorale

(Public Policy) – Roma, 29 apr – Tutti ne parlano, tutti
dicono che va cambiata: come farlo è però materia che
nemmeno i saggi nominati da Giorgio Napolitano hanno saputo
spiegare con precisione. Modificare il Porcellum targato
Roberto Calderoli è comunque un’urgenza tanto quanto le
riforme economico-sociali chieste dalle parti sociali e
necessarie per provare a uscire dalla crisi, e questo i
partiti sembrano averlo capito.

Ora è arrivato il Governo Letta (oggi si vota la fiducia
alla Camera, domani al Senato), e chissà se le larghe intese
che al tempo del Governo tecnico non erano riuscite a
partorire la riforma del sistema elettorale riusciranno
adesso a dare al Paese la certezza di ottenere stabilità nel
dopo voto, senza maggioranze risicate in Parlamento.

Del tema (legge elettorale + riforme istituzionali) se
n’era parlato ovviamente anche in campagna elettorale, con
parole e fini diversi da parte delle due coalizioni oggi
insieme al governo. Vediamo cosa c’era scritto nei programmi
di Pd e Pdl (le forze principali che sostengono Letta) e
cosa invece hanno suggerito i saggi nominati dal capo dello
Stato nella loro relazione sulle riforme istituzionali.

IL DOPPIO TURNO DI COLLEGIO DEL PD
Il programma di Italia Bene Comune, la coalizione di
centrosinistra tra Pd, Sel e Psi, era conciso e di poche
parole. Anche per quanto riguarda l’assetto istituzionale:
“Siamo favorevoli – si legge – a un sistema parlamentare
semplificato e rafforzato, con un ruolo incisivo del governo
e la tutela della funzione di equilibrio assegnata al
presidente della Repubblica. Riformuleremo un federalismo
responsabile e bene ordinato che faccia delle autonomie un
punto di forza dell’assetto democratico e unitario del
Paese”.

Più dettagliato, almeno per quanto riguarda le riforme
istituzionali, è invece uno degli 8 punti con i quali Pier
Luigi Bersani tentava di convincere il Movimento 5 stelle a
dare la fiducia a un esecutivo a guida Pd-Sel: “Riduzione
numero parlamentari – si legge – sono 945, troppi per poter
garantire la qualità del dibattito e delle decisioni: ci
impegniamo a ridurli: da 630 a 300 deputati e da 315 a 150
senatori elettivi, da 5 a 2 i senatori a vita nominabili da
ciascun presidente della Repubblica”.

“Manca un Senato delle Regioni e delle autonomie – si legge ancora
– riforma necessaria per far funzionare il federalismo: il Senato
della Repubblica diventa il Senato delle Regioni e delle
autonomie. I senatori sono eletti contestualmente alla
elezione dei Consigli regionali e decadono in caso di
scioglimento anticipato del Consiglio regionale della loro
regione. Per la prima elezione sono eletti insieme alla
Camera e decadono al momento delle prime elezioni regionali
generali. Il Senato ha il compito di tenere il raccordo tra
Stato, Regioni e autonomie locali”.

Per quanto riguarda la legge elettorale la proposta del Pd
è sempre stata, prima durante e dopo le elezioni (era
inclusa negli 8 punti, pur non entrando nel merito), il
doppio turno di collegio sul modello francese (e dunque
maggioritario).

IL PRESIDENZIALISMO DEL PDL
Tra i sintomi che indicavano una malattia interna al
Governo Monti (che poi portò alla caduta dell’esecutivo
guidato dal Professore) va sicuramente segnalato il voto del
24 luglio 2012 del Senato su due emendamenti al testo di
riforma in discussione proposti da Pdl e Lega, e che
prevedevano l’elezione diretta del presidente della
Repubblica “a suffragio universale e diretto”. Emendamenti
approvati e che fecero molto arrabbiare il Partito
democratico e l’Udc di Pier Ferdinando Casini (amante a sua
volta di un proporzionale alla tedesca).

Dal programma del Pdl, però, il presidenzialismo non è mai
uscito di scena. Ancora durante questa campagna elettorale
si leggeva, a pagina 7 dell’agile programma berlusconiano:
“Elezione diretta e popolare del presidente della
Repubblica; rafforzamento dei poteri del Governo; riforma
del bicameralismo; Senato federale; dimezzamento del numero
dei parlamentari e delle altre rappresentanze elettive”.
Proposta simile a quella di Fratelli d’Italia, che però non
voterà la fiducia al Governo Letta.

IL MATTARELLUM DEI SAGGI
I saggi nominati da Giorgio Napolitano durante i difficili
giorni post-elezioni, che vedevano i partiti incapaci di
trovare convergenze parlamentari, hanno chiaramente parlato
dell’urgenza di superare il Porcellum e della possibilità di
un ritorno al Mattarellum, ovvero la legge elettorale che
c’era prima dell’attuale.

Un sistema misto, che venne approvato dal Parlamento in
seguito a un referendum nel 1993. Adottandolo, scrivono i
saggi, dovrebbe essere abolito lo “scorporo”, ovvero il
sistema che compensa i partiti minori danneggiati dai
collegi uninominali.

Il sistema misto prevede che una parte dei seggi del Parlamento
siano assegnati con sistema maggioritario e una parte proporzionale, con un
“alto sbarramento implicito o esplicito ed eventualmente un
ragionevole premio di governabilità”.

Una proposta che non ha visto comunque l’unanimità tra i 5
saggi chiamati ad affrontere il tema. Mario Mauro (Sc), ad
esempio, attuale ministro della Difesa, ci tenne a precisare
che per lui metà dei seggi dovevano essere assegnati con
formula proporzionale e l’altra metà con il
maggioritario.

Un’altra richiesta dei saggi è l’abolizione delle
circoscrizioni estere per sostituirle con il voto per
corrispondenza. E ancora: “Superamento del bicameralismo
perfetto”, con una sola Camera a legiferare e a essere
titolare dell’indirizzo politico; un Senato che diventi il
luogo dove siedono i presidenti di Regione e i
rappresentanti dei Consigli regionali; diminuzione del
numero dei deputati da 630 a 480 (con un rapporto per
abitante che sale da 95 mila a 125 mila abitanti per
deputato), e dei senatori da 315 a 120.

I saggi parlano inoltre della necessità di un sistema
parlamentare razionalizzato, e non di semipresidenzialismo:
“Il gruppo di lavoro ha ritenuto preferibile il regime
parlamentare ritenendolo più coerente con il complessivo
sistema costituzionale, capace di contrastare l’eccesso di
personalizzazione della politica, più elastico rispetto alla
forma di governo semipresidenziale”, si legge nella
relazione.

“L’esperienza italiana, specie quella più recente, ha
dimostrato l’utilità di un presidente della Repubblica, che,
essendo fuori dal conflitto politico, possa esercitare a
pieno titolo le preziose funzioni di garante dell’equilibrio
costituzionale” continua la relazione.

Anche qui non tutti erano d’accordo. Tra i saggi, infatti,
c’era un semipresidenzialista: “Il componente del gruppo che
ha sostenuto l’opzione semipresidenziale – si legge – ha
invece sottolineato come l’elezione diretta del presidente
della Repubblica sia più efficace nel fronteggiare la crisi
di legittimazione della politica, rafforzando la democrazia,
coniugando rappresentatività ed efficienza istituzionale”.
(Public Policy)

GAV