ROMA (Public Policy) – di Enrico Cisnetto – L’intenzione, probabilmente, era soltanto quella di mandare un messaggio che suonasse come musica alle orecchie dell’elettorato moderato, verso il quale sente di aver un po’ perso la capacità attrattiva proprio alla vigilia delle regionali. Ma l’uscita di Renzi sul “sindacato unico” rivela tutta la fragilità della politica italiana, ferma a dibattiti tanto vecchi quanto inutili.
Da un lato c’è l’infelicità di quella parola, “unico”, termine equivoco che presta facilmente il fianco a speculazioni. Bastava dire unito o unitario, ma al presidente del Consiglio è scappata una definizione stupida, che tra l’altro mal si attaglia alla seconda parte della sua esortazione, quando ha detto basta a “sigle su sigle”, evocando non Cgil-Cisl-Uil ma la pletora di sindacatini che affollano in particolare il pubblico impiego. Tanto più se Renzi voleva riferirsi alla scelta tedesca.
In Germania, infatti, dopo il lungo sciopero dei macchinisti delle ferrovie,Merkel ha recuperato una proposta di legge socialdemocratica che impone alle imprese di negoziare i contratti con un solo sindacato, quello maggioritario. Ma in questo caso la logica è appunto quella di evitare i ricatti di piccole minoranze, non di immaginare un sindacato di regime.
Dall’altro lato, sconforta la reazione, improntata al solito riflesso condizionato del “politicamente corretto”, senza alcuna apertura ad una riflessione seria sulle prospettive da dare al sindacato italiano, da anni afflitto da una forte crisi di rappresentanza – pensionati più pubblico impiego fanno la stragrande maggioranza – unita ad una crescente marginalità dovuta alla progressiva disintermediazione che la politica ha imposto a tutte le parti sociali.
Come ha scritto quel vecchio saggio di Emanuele Macaluso, “purtroppo, i dirigenti dei sindacati storici non capiscono che la campana suona anche per loro, e per i lavoratori”. Ecco, l’uso di un termine da parte di Renzi ha consentito ai leader sindacali di nascondere la loro coda di paglia, che gli cresciuta da quando per motivi di bottega hanno rinunciato a perseguire un progetto di unità sindacale organica, basato su un progetto riformista del Paese e della sua economia.
Il mondo globalizzato impone modelli nuovi, tanto dei lavori quanto del mercato che li regola, ma il sindacato resta abbarbicato al vecchio schema del lavoro dipendente a orario pieno e a tempo indeterminato, e anche quando obtorto collo accetta deroghe, finisce per considerarle una lesa maestà a se stesso e ai sacri principi.
Dunque, la strada non è quella del “sindacato unico”, bensì di un nuovo sindacato, moderno e riformista, delle persone, dei luoghi di lavoro e dei territori, e non verticista e vetero. E se il governo tiene a favorire questo processo, e non a lanciare slogan, metta seriamente mano agli articoli 39, 40 e 46 della Costituzione – quelli che disciplinano la rappresentanza delle organizzazioni sindacali di lavoratori e imprese, le modalità dell’esercizio del diritto di sciopero, la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende – per dar loro piena applicazione. Di tutte le altre chiacchiere gli italiani si sono rotti le scatole. (Public Policy)
@ecisnetto