Operazione Albania, un decreto inutile

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di Carmelo Palma

ROMA (Public Policy) – Secondo una prassi invalsa e non per questo meno discutibile, lunedì sera il Consiglio dei ministri ha approvato i contenuti, ma non il testo (infatti non è ancora disponibile) di un decreto legge, che dovrebbe porre rimedio all’impasse in cui è finita l’operazione Albania concordata tra Giorgia Meloni ed Edi Rama, quando il Tribunale di Roma, con una decisione peraltro attesa dopo una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue, ne ha demolito il presupposto giuridico.

Per dipanare un garbuglio complesso di norme e di pronunce nazionali e europee e per capire se e in che misura la soluzione trovata dal Governo (e ancora all’esame del Quirinale) possa davvero essere considerata tale, è necessario ricostruire a brevi linee come e perché si è arrivati a questo punto.

Il Protocollo tra i Governi italiano e albanese per la collaborazione in materia migratoria, ratificato con la legge 14/2024, ha stabilito che la permanenza dei migranti accolti sul suolo albanese sia limitata “al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio”. Il che significa che la parte del territorio albanese in cui è collocato il centro di trattenimento dei richiedenti asilo è equiparato a una frontiera italiana. La legge italiana, non quella europea (articolo 28-bis del dlgs 25/2008) prevede che le procedure accelerate per il riconoscimento o il respingimento delle domande di protezione internazionale possano essere effettuate direttamente alla frontiera o nelle zone di transito solo se il richiedente è stato fermato dopo avere tentato di eludere i controlli alla frontiera (non è questo evidentemente il caso di un migrante trasportato in Albania dall’Italia), oppure se proviene “da un paese designato di origine sicura”. È sempre la legge italiana a stabilire (articolo 2-bis del d.lgs. 25/2008) che “la designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone” ed è esattamente questo il punto in cui la normativa italiana entra in contrasto con la normativa europea, secondo l’interpretazione datane dalla Corte di Giustizia.

Essa infatti ha stabilito che l’articolo 37 della direttiva europea 2013/32 osta a che un Paese sia considerato sicuro se non lo è in tutte le sue parti e per tutti i suoi cittadini. Nel motivare questa interpretazione la Corte ha anche documentato come il criterio della parziale sicurezza di un Paese fosse prevista dalla precedente direttiva (articolo 30 della direttiva 2005/85), ma sia stato abrogato dalla nuova direttiva 2013/32.

Questa interpretazione è alla base della decisione del Tribunale di Roma, che non ha convalidato il trattenimento alla frontiera di un richiedente proveniente da un Paese, il Bangladesh, che non era considerato del tutto sicuro neppure nella “scheda-Paese” dell’istruttoria compiuta ministero degli Esteri per l’aggiornamento della lista, previsto dall’articolo 2-bis del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 e contenuto nel decreto 7 maggio 2024. Erano infatti riportati rischi per persone LGBTQ+, minoranze etniche e religiose, accusati di reati politici e vittime di calamità naturali. Si badi: il Tribunale di Roma non ha affatto stabilito che quel singolo richiedente avesse diritto alla protezione internazionale, bensì solo che non potesse essere oggetto di una procedura accelerata alla frontiera.

Di fronte a tutto questo, la strategia del Governo, per come emerge dal comunicato diramato da Palazzo Chigi, sarebbe quella di “traslocare” da una fonte secondaria (un decreto ministeriale) a una fonte primaria (la legge) la norma di designazione dei Paesi sicuri (dalla lista fatta pochi mesi fa sono stati depennati Camerun, Colombia e Nigeria) e forse quella dei relativi criteri di classificazione, per porle così al riparo da una possibile disapplicazione per via giudiziaria.

È dal punto di vista giuridico una strategia decisamente debole, per non dire inconsistente, visto che la disapplicazione delle norme di legge nazionali per contrasto con la normativa europea, come interpretata dalla CGUE, sono assolutamente comuni e ricorrenti. Si pensi ad esempio alle recenti sentenze del Consiglio di Stato sulla non solo possibile, ma necessaria disapplicazione delle norme nazionali di proroga, approvate con articoli di legge, per le concessioni balneari e per l’esercizio del commercio in aree mercatali, in quanto contrastanti con la normativa europea.

A fronte di un ricorso di un rifugiato trasferito nel centro di Gjader e proveniente da un Paese qualificato come sicuro dalla legge, ma neppure riconosciuto come tale dalla Farnesina e in ogni caso contraddistinto, in alcune aree o per alcuni gruppi sociali, da situazioni di pericolo (persecuzioni, violenze, carestie…), i giudici potranno continuare tranquillamente a non convalidarne il trattenimento in Albania. Quindi il decreto servirà solo per un fine non dichiarato: quello di continuare la “guerra dei migranti” con l’Ue, con i magistrati e con le opposizioni, nella speranza che sia pagante e funga comunque da schermo per il fallimento della politica dei rimpatri, ferma anche con il Governo Meloni, come con tutti i precedenti, a poche migliaia all’anno. (Public Policy)

@carmelopalma