di Giuseppe Pastore
ROMA (Public Policy) – Il dossier pensioni sta catalizzando l’attenzione del Governo. Si tratta della materia più delicata da definire in vista della prossima legge di Bilancio in cui si dovrà trovare il giusto equilibrio tra conti da far quadrare e istanze elettorali da tenere a bada per evitare tensioni tra le forze politiche nel periodo più caldo dell’anno, con la scadenza del 20 settembre entro cui inviare a Bruxelles il Piano strutturale di bilancio, in vista della Manovra 2025. Il capitolo pensioni, quindi, è tra i più delicati.
L’Esecutivo, infatti, dovrà definire il destino delle misure in scadenza a dicembre 2024: Quota 103, Ape sociale e Opzione donna. Si dovrà decidere se optare per una proroga oppure sostituirle intervenendo sulla flessibilità in uscita. Le valutazioni, tuttavia, dovranno tenere conto delle richieste – che hanno un peso politico – di Lega e Forza Italia. I due partiti di maggioranza, infatti, puntano a intestarsi ritocchi e piccole riforme sulle pensioni.
COSA CHIEDONO SALVINI E TAJANI
Il Carroccio punterebbe a introdurre ‘Quota 41’, ma il sistema di uscita dal mondo del lavoro (con 41 anni di versamenti e nessun requisito anagrafico) sarebbe troppo dispendioso per i conti pubblici e quindi difficilmente attuabile nella prossima legge di Bilancio.
Forza Italia, invece, punterebbe ad aumentare le pensioni minime (storica battaglia del partito fondato da Silvio Berlusconi) che oggi sono ancorate a circa 600 euro. Si tratterebbe di un intervento certamente meno costoso rispetto a ‘Quota 41’ che, se inserito in Manovra, potrebbe rappresentare un timido segnale elettorale di cui gioverebbe anche Fratelli d’Italia nell’ambito di una legge di Bilancio che si preannuncia scarna a causa della risicata disponibilità economica e delle nuove, stringenti regole Ue.
L’IPOTESI DI UNA STRETTA SULLE PENSIONI ANTICIPATE
C’è comunque un’ipotesi che si sta facendo strada: intervenire con un prolungamento delle finestre per l’accesso alla pensione anticipata che verrebbero portate dagli attuali 3 a 6 o 7 mesi per chi decide di andare in pensione con 42 anni e 10 mesi di contributi (per le donne 41 anni e 10 mesi) a prescindere dall’età anagrafica.
Si tratta di un’ipotesi che sarebbe giustificata dalla necessità di far quadrare i conti, ma su cui la Lega si è già espressa contrariamente tramite il sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon, che ha contestato la possibilità di ritoccare le finestre mobili insistendo invece su ‘Quota 41’, definita dall’ex sindacalista Ugl una misura “plausibile”.
AL VAGLIO VERSAMENTO TFR IN PREVIDENZA COMPLEMENTARE
Un’altra strada che sarebbe oggetto di attenzione da parte dei tecnici del Mef, sarebbe quella proposta dalla Lega di destinare obbligatoriamente una percentuale del Tfr alla previdenza integrativa. L’intervento normativo renderebbe quindi obbligatoria quella che oggi è una possibilità poco praticata dai lavoratori dipendenti e punterebbe ad assicurare un assegno pensionistico migliore.
L’intenzione, ha spiegato nei giorni scorsi sempre Durigon, sarebbe quella di fissare al 25% la quota di Tfr da destinare alla previdenza complementare. In questo modo, si sommerebbe alla pensione integrativa quella del sistema pubblico per consentire un’uscita dal mondo del lavoro a 64 anni.
Al ministero del Lavoro, si starebbe valutando la possibilità di accompagnare la misura ad un meccanismo di silenzio-assenso di 6 mesi. La decisione, in ogni caso, richiederà un confronto con le parti sociali. Da un lato, infatti, la misura riguarderebbe solo i lavoratori dipendenti. E dall’altro potrebbe creare difficoltà alle piccole e medie imprese per cui il Tfr rappresenta una rilevante fonte finanziaria. (Public Policy)
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