di Carmelo Palma*
ROMA (Public Policy) – Il rapporto sugli indicatori demografici 2024 diffuso dall’Istat è una fotografia del progressivo deterioramento non solo della struttura della popolazione, ma anche della vitalità socio-economica dell’Italia. Tra tutte le tendenze che il rapporto evidenzia nessuna può dirsi nuova o imprevista, ma almeno una di queste – tra le più negative – mostra un aggravamento inaspettato.
Il saldo migratorio netto con l’estero (differenza tra immigrati ed emigrati) è positivo e pari a 244mila unità e compensa quasi completamente il saldo naturale (differenza tra nati e morti), negativo per 281mila unità: al suo interno emerge però un fenomeno particolarmente allarmante. Le emigrazioni per l’estero sono state 191mila (+20,5% sul 2023), ma ben 156mila hanno riguardato cittadini italiani (+36,5% sul 2023). Non emigravano così tanti italiani verso l’estero dall’inizio degli anni ‘70 e considerando che l’età mediana era di poco superiore ai trenta anni e oggi di poco inferiore ai cinquanta e quindi la propensione all’emigrazione della popolazione era allora sensibilmente più alta, siamo davvero vicini come dinamica ai livelli di emigrazione di massa degli anni ‘60.
A confermarlo indirettamente è anche la differenza tra italiani espatriati e rimpatriati ( questi ultimi sono stati 53mila nel 2024), che appunto non superava le 100mila unità dall’inizio degli anni ‘60. Il saldo migratorio è positivo grazie all’apporto della popolazione straniera, ma ovviamente questa compensazione, attraverso l’afflusso di stranieri con aspettative di reddito inferiori, se pure funziona sul piano puramente demografico – nel senso che l’Italia non è ancora un Paese in spopolamento, malgrado il crescente squilibrio tra la popolazione in età attiva e non attiva – evidenzia comunque un evidente peggioramento delle prospettive economiche “percepite”.
Altrettanto preoccupante è il dato relativo al tasso di fecondità che, combinato con l’invecchiamento della popolazione, rende particolarmente drammatica l’emergenza natalità. Il tasso di fecondità (numero medio di figli per donna in età fertile) è sceso al minimo storico di 1,18. Il minimo precedente era stato di 1,19 nel 1995, in cui i nati erano stati però 526mila contro i 370mila del 2024. Infatti nel 1995 il saldo naturale era negativo per poco meno di 30mila unità, mentre oggi è quasi di dieci volte superiore. Peraltro, tra i nuovi nati quelli con cittadinanza straniera sono il 13,5% del totale, a fronte di una quota di stranieri sulla popolazione residente del 9,1%. Inoltre la popolazione residente di cittadinanza italiana (53,51 milioni) è di 206mila unità inferiore a quella dell’anno precedente, malgrado 217mila cittadini stranieri abbiano nel frattempo acquisito la cittadinanza.
Il Governo al giro di boa della legislatura, malgrado un forte accento sul sovranismo demografico ed economico (“prima gli italiani”), non è riuscito ad invertire nessuna delle tendenze in corso da anni. In Italia si fanno sempre meno figli (e sempre meno italiani) e sempre più italiani scelgono di lasciare il proprio Paese.
Se non è ragionevole accusare l’Esecutivo di non avere fatto quello che in pochi anni non è possibile fare – si tratta di tendenze strutturali – lo si può invece più credibilmente criticare per avere promesso ciò che sapeva di non potere mantenere e per essersi mosso lungo una prospettiva – quella di un’Italia “più italiana” – non solo del tutto irrealistica, ma anche pericolosa, visto che l’Italia, nel prossimo futuro, ancora più che in passato, dovrà affrontare fenomeni obbligati di meticciamento etnico-culturale e potrà evitare guerre di civiltà e di religione solo se riuscirà a stabilire, tra italiani e stranieri (che sempre più copiosamente diventeranno cittadini italiani), rapporti di rispetto e di coesione, offrendo agli uni e agli altri prospettive realistiche di progresso economico e civile. Al contrario, un Paese che insieme si impoverisce e si divide in una guerra tra poveri di diversa discendenza e colore mina quella fiducia che è necessaria a tutti, italiani e stranieri, per scommettere sull’Italia.
Se la demagogia politica assicura una rendita elettorale sicura agli impresari della paura e della sfiducia, non aiuta di certo a creare le condizioni migliori perché l’Italia torni a crescere con tassi inferiori allo zero virgola e gli italiani tornino a fare figli e a credere di potere fare fortuna senza espatriare. Le politiche settoriali – dal welfare pro family, alle misure di incentivo per l’occupazione giovanile e femminile – possono certamente essere utili, ma solo se si ribalta quell’immagine dell’Italia come “Paese perduto”, che populismo e sovranismo consolidano, disincentivando qualunque tipo di investimento sul futuro. (Public Policy)
@CarmeloPalma
*l’autore è responsabile dell’Ufficio legislativo di Azione al Senato