Le radici della cultura anti-scientifica in Italia e la crisi da Coronavirus

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Dall’idealismo crociano alla decrescita di Latouche, passando per l’autarchia fascista
e la contestazione studentesca: mappa ragionata di chi nel nostro Paese ha
alimentato la cultura anti-scientifica. Un tributo al pensatore Luciano Pellicani

di Marco Valerio Lo Prete

ROMA (Public Policy) – La pandemia di Coronavirus e la crisi sanitaria ed economica che ne sono discese, con le difficoltà incontrate nel discutere e poi nell’assumere decisioni per porvi rimedio, stanno riproponendo nella sua drammaticità il tema di una diffusa cultura antiscientifica in Italia. Il dibattito pubblico è influenzato a tutti i livelli da una insofferenza per spiegazioni causali complesse e con margini di incertezza, insofferenza figlia di un’insufficiente dimestichezza con le regole del metodo scientifico, e ciò compromette l’efficacia delle decisioni e l’applicazione delle stesse.

Il rapporto italiano con la scienza non può essere ridotto al modo più o meno urbano col quale trattiamo i virologi nei talk show televisivi (e viceversa). Per questo tornano utili alcune riflessioni in materia di uno dei maggiori pensatori italiani contemporanei, il sociologo Luciano Pellicani, scomparso lo scorso 11 aprile. Il suo contributo teorico ha spaziato dagli studi sulla genesi del capitalismo alla esegesi della mentalità rivoluzionaria, né può essere taciuto il suo ruolo di intellettuale pubblico, alfiere di una sinistra non autoritaria e compatibile con le “libertà borghesi”. In opere più recenti (di seguito citerò diffusamente “Contro la modernità” e “Dalla città sacra alla città secolare”, entrambe edite da Rubbettino), Pellicani ha inoltre tentato di risolvere proprio il seguente dilemma: se è vero che mercato, scienza e tecnica – per lo studioso a lungo in cattedra all’Università LUISS di Roma – sono i potenti motori “della rivoluzione permanente che siamo soliti chiamare modernizzazione”, cos’è che in Italia ha reso questa triade così impopolare?

Innanzitutto Pellicani rileva un fenomeno che ritiene comune a tutto l’Occidente: la reazione filosofica degli “orfani di Dio” al “disincanto del mondo” che fu sancito dall’Illuminismo. Per antropomorfizzare la questione, si potrebbe dire che a Galileo Galilei rispose, a distanza di secoli, Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Per il fisico e filosofo italiano, il Grande libro della Natura “era scritto in lingua matematica”, il che “suonò come una campana a morto per la visione teleologica e teologica del mondo”. Hegel invece ammise di aver elaborato “una Teodicea, una giustificazione di Dio”. Per Pellicani, infatti, l’impresa speculativa del filosofo tedesco “fa vedere, con l’ausilio della logica dialettica – la quale, in quanto autopensarsi dell’Assoluto, non fornisce ‘un sapere delle cose mondane, ma una conoscenza del non mondano, di ciò che è eterno’ –, come e perché ‘la storia del mondo non rappresenta altro che il piano della Provvidenza’”. Ancora più influente nel mondo occidentale, Italia inclusa, fu l’elaborazione di Karl Marx di questo tentativo di procrastinare le conseguenze nichilistiche della morte di Dio. “Con Marx, la gnosi dialettica, da contemplativa, si fa attivistica e, proprio per questo – scrive Pellicani – si converte in una chiamata rivoluzionaria alle armi, in un appello rivolto a tutti gli ‘orfani di Dio’ affinché essi si trasformino in prometeici costruttori del ‘Regno millenario della libertà’”.

Sempre scandagliando la storia delle idee, Pellicani indica nel contributo “idealistico” di Benedetto Croce e Giovanni Gentile nel primo Novecento un altro tentativo, specificamente italiano, di “surrogare la volatilizzata fede nel Dio della tradizione giudaico-cristiana”. Da qui la loro “offensiva contro le scienze empiriche e la matematica, di cui non riconoscevano alcun valore cognitivo”. Con risultati concreti nel breve termine come l’emarginazione di studiosi riconosciuti a livello internazionale, solo perché giudicati di orientamento troppo positivistico: Guglielmo Ferrero, Gaetano Salvemini, Giuseppe Peano, Raffaele Pettazzoni, Federigo Enriques, Giovanni Vailati, Vito Volterra, Mario Pieri, ecc. Oppure la decisione, nell’ambito della riforma Gentile della scuola, di non consentire a chi avesse frequentato il liceo scientifico di accedere alla facoltà di Giurisprudenza, dove si formava la classe dirigente del paese. In ragione di tutto ciò, ragiona Gilberto Corbellini citato da Pellicani, “le élites politico-amministrative in Italia hanno maturato una formazione quasi esclusivamente umanistica e non sono state in grado di comprendere l’impatto economico e sociale ovvero il ruolo della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica nel dare competitività all’economia e dinamismo alla società”. Nello stesso periodo storico, autarchia e nazionalismo scientifici fecero il resto: dal “ritorno alla terra” contrapposto alla società industriale, alle leggi razziali che portarono alla marginalizzazione di studiosi di livello (Enrico Fermi, Emilio Segrè e Bruno Rossi solo per fare alcuni nomi tra i tanti).

Pellicani osserva però che al crollo della dittatura fascista non corrispose l’automatico venir meno delle “subculture ostili alla società industriale”.

Sull’atteggiamento verso la scienza, pure nell’immediato Dopoguerra, pesò a lungo una certa eredità dell’idealismo crociano. Il sociologo di Ruvo di Puglia osserva anzi che il miracolo economico degli anni 60 avvenne malgrado la “Caporetto della scienza italiana” (cit. Riccardo Campa). Da una parte, infatti, ci furono “risultati di grande rilievo, come l’Anello di Accumulazione realizzato a Frascati, il Laboratorio internazionale di Genetica e Biofisica di Napoli e la Divisione elettronica creata da Adriano Olivetti”. Dall’altra parte “colpi devastanti” come la morte di Enrico Mattei e il tramonto di un progetto di approvvigionamento energetico autonomo, l’offensiva politica contro il CNEN – ente pubblico che gestiva il programma nucleare – e l’arresto del suo presidente, Felice Ippolito (alla fine assolto); l’arresto di Domenico Marotta, direttore dell’Istituto Superiore di Sanità, che aveva lavorato a un avanzato programma nel campo di biotecnologie e farmacologia, pure lui assolto.

L’irrompere della contestazione studentesca, secondo Pellicani, non giovò allo stato di salute della scienza italiana. Le sue “parole d’ordine – il rifiuto della selezione considerata classista, la richiesta del ’27 politico’, l’autogestione assemblearista delle istituzioni universitarie, ecc. – esprimevano una violenta reazione ideologica contro lo spirito della Modernità e gli imperativi funzionali della società industriale”. Inoltre, se scienza e tecnica sono considerate al servizio del Grande Capitale, si può arrivare ad aberrazioni concettuali come quelle del fisico Marcello Cini secondo cui la “pretesa razionalità scientifica si indentificava con la logica irrazionale del capitalismo”. E’ in questo clima che ci fu il boom di popolarità “degli scritti dei filosofi oracolari della Scuola di Francoforte, nei quali veniva stigmatizzata la natura intrinsecamente e irrimediabilmente perversa delle istituzioni e delle forme di pensiero della moderna società industriale”. Pellicani sottolinea così il carattere anti moderno delle riflessioni di Theodor Adorno e Max Horkheimer; poi di Herbert Marcuse, riferimento degli studenti in collera, scrive: per lui “fascismo, nazismo, comunismo sovietico e democrazie liberali altro non erano che variazioni epifenomeniche di un’unica, identica, realtà storica: la società totalitaria centrata sul dominio incontrastato dell’apparato scientifico-tecnologico”.

L’ultimo tassello di questo mosaico anti-scientifico Pellicani lo individua nei cosiddetti “guru della decrescita”. Stavolta lo studioso parte da un paradosso: “Per Marx il capitalismo era un poderoso vettore di civilizzazione planetaria e di progresso materiale e spirituale, per i guru dell’antimodernità è un perverso agente di degradazione e di corruzione dell’umanità tutta quanta. Di qui il fatto che essi ‘identificano la Natura con l’Innocenza e teorizzano la sua sacralità; fanno un uso continuo e quotidiano di macchine della più varia specie e natura e insieme detestano tutto ciò che è artificiale, odiano l’industria, la chimica, la tecnologia, la modernità’ (Paolo Rossi Monti)”. Ecco spiegato perché nemmeno “la bancarotta planetaria del comunismo” ha portato alla “riconciliazione della cultura italiana con la scienza, la tecnica e il mercato”. Infatti “la scena è stata occupata da nuove e più sofisticate forme di irrazionalismo e di anti illuminismo: la Gnosi di Martin Heidegger (1899-1976), la così detta filosofia post-moderna, l’ideologia della decrescita e l’ecologismo radicale”. Il nostro Paese negli ultimi anni si è dimostrato “particolarmente favorevole alla penetrazione e alla diffusione di massa della retorica dei guru della ‘cultura della non crescita’”. Ad “arare e coltivare” il terreno, oltre a tutte le influenze elencate in precedenza, si erano dedicati da tempo alcuni pensatori autodefinitisi “progressisti” e che “nello stesso momento tuonavano contro la rivoluzione capitalistica”. Fra questi Pellicani cita Pier Paolo Pasolini (1922- 1975) e i suoi editoriali sul Corriere della Sera. Oggi dunque non dovrebbe stupire il successo di Serge Latouche e affini, la cui decrescita, secondo lo studioso, “è solo un diverso modo di dire che la salvezza dell’umanità esige la fuoriuscita dal capitalismo”. Risultato? “L’Italia è entrata nel XXI secolo – osserva Pellicani – come una società postindustriale con vistose carenze nei settori dai quali dipende il suo ulteriore sviluppo e, per di più, ancora infestata da ideologie profondamente ostili al mercato, alla scienza e alla tecnica”. (Public Policy)

@marcovaleriolp