di Gaetano Veninata
ROMA (Public Policy) – “Signor presidente, onorevoli colleghe, onorevoli colleghi, di recente mi sono interrogato sul concetto di verità, ho quindi ripreso in mano i libri del liceo e, sfogliandoli, non solo mi sono reso conto di non averli studiati come avrei dovuto a suo tempo (signor presidente, per favore, non diciamolo troppo forte, che i miei genitori potrebbero ascoltare), ma ho anche appreso che nella cultura greca il concetto filosofico di verità inizia a delinearsi nel corso del VI secolo avanti Cristo, negli scritti dei naturalisti, specialmente nel poema di Parmenide, il quale per primo svolge la contrapposizione tra verità e opinione“.
“La concezione parmenidea segna l’inizio di quel paradigma ontologico della verità che tanti influssi eserciterà nella speculazione successiva, fino all’età moderna, attraversando diversi orientamenti filosofici. A Platone risale la prima formulazione della verità quale caratteristica del discorso che ‘dice gli enti come sono’, cui corrisponde quella del falso come proprietà del discorso ‘che dice come non sono’, definizione questa che sarà codificata da Aristotele nel celebre luogo della Metafisica, secondo cui ‘dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso; dire di ciò che è che è, o di ciò che non è che non è, è vero’. Insomma, il concetto di verità è di antica definizione, eppure in alcuni casi viene ancora sostituito dal ‘dire ciò che è che non è’, proprio come avviene da più di un secolo per il genocidio degli armeni, che ebbe inizio il 24 aprile 1915 nel territorio dell’Impero Ottomano”.
(Giulio Centemero, deputato della Lega, nel corso della discussione sulla mozione – approvata all’unanimità – per riconoscere il genocidio armeno). (Public Policy)
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