di Leopoldo Papi
ROMA (Public Policy) – Con il ritorno dello spread tra Btp e Bund si è riacceso lo scontro tra sostenitori e critici dell’euro. Questa polemica sui costi e benefici di scenari possibili ha poco senso, perché è molto probabile che la rottura dell’area euro e di libero scambio alla lunga sia comunque inevitabile senza una ‘ever closer union’, ovvero un’evoluzione di fatto dell’Ue – o almeno dei paesi euro – verso un modello politico federalista.
In assenza di strumenti di garanzia fiscale su tutta l’area o, in alternativa di tassi di cambio flessibili (cioè in assenza dell’euro), shock inattesi – la crisi finanziaria del 2007-8, Brexit o altre – mettono a nudo di fronte ai mercati la scarsa produttività , i debiti pubblici insostenibili e i dissesti bancari e finanziari di alcuni Paesi – come l’Italia – e costringono i decisori europei e nazionali ad affrontare un dilemma: rispettare i trattati fondativi dell’euro e abbandonare questi paesi al default, forzandoli di fatto a uscire dalla moneta unica e tornare a una moneta nazionale – banalmente, per evitare un blocco generale dei pagamenti nelle loro economie – oppure sostenerli finanziariamente, demolendo di fatto tutta l’architettura giuridica su cui poggia l’area monetaria.
Lo spread è il ‘prezzo’ del verificarsi di una di queste due eventualità , e dunque del rischio politico sull’eurozona: quando gli investitori sentono avvicinarsi la prima, scontano razionalmente il rischio di convertibilità legato al ritorno alla valuta nazionale, chiedendo tassi di interesse più alti; quando invece intuiscono che i paesi saranno comunque salvati, il differenziale di rendimento sui titoli a lungo termine si abbassa.
Il paradosso politico generato da entrambi gli esiti è evidente: se si lasciano andare i Paesi in default, i trattati vengono rispettati, ma l’area euro si riduce ai soli Paesi in grado di rispettarne i parametri. Fine dell’euro, almeno nella forma in cui era stato concepito. Il salvataggio dei paesi in crisi implica invece l’utilizzo di risorse fiscali dei paesi forti per sanare i dissesti fiscali o bancari dei paesi deboli.
A questo punto irrompe sulla scena un problema insormontabile di condivisione di sovranità : con ragioni sacrosante i contribuenti ed elettori dei paesi virtuosi del nord Europa saranno poco inclini a pagare il conto degli sprechi di Italia o Grecia, senza avere voce in capitolo sulla gestione delle risorse. Tuttavia accontentarli significa, di fatto, espropriare cittadini e governi di alcuni paesi delle loro prerogative sovrane, trasferendole ad altri Paesi (pur attraverso la mediazione di istituzioni sovranazionali, che però sono prive di budget e legittimazione democratica e, quindi, senza prendersi in giro, di effettiva autonomia decisionale).
È la soluzione che, più o meno, è stata applicata alla Grecia. Dal punto di vista formale/giuridico senz’altro garantisce il rispetto dei trattati europei. Da quello sostanziale tuttavia è uno stato di cose che ricorda molto un’occupazione militare, destinato a generare fortissime reazioni politiche e sociali interne ai paesi tali da indurre comunque i paesi a uscire unilateralmente dall’euro e dalla Ue, e – si può legittimamente aggiungere – in aperto conflitto lo spirito originario del progetto europeo. In assenza di credibili garanzie ‘federali europee’, si comprende insomma come l’euro inneschi tensioni disgregatrici potenzialmente incontrollabili, a prescindere dalle buone intenzioni dei decisori nazionali ed europei, e in barba alle raccomandazioni di esperti e accademici.
Se ad oggi le tensioni finanziarie connesse al rischio politico sull’Eurozona sembrano essere state disinnescate efficacemente dalla Bce, in particolare con l’avvio nel 2015 del Quantitative easing, gli interventi di politica monetaria potrebbero non bastare più a fronteggiare il sorgere di nuove ‘minacce’, come l’affermarsi di forze politiche populiste e antieuropeiste in tutti i Paesi membri, o l’incertezza sul venir meno dell’impegno americano nel garantire la sicurezza all’Europa.
“L’euro è irreversibile”, ha ribadito Mario Draghi intervenendo il 6 febbraio di fronte alla commissione economica e monetaria del Parlamento europeo, ma l’autorevolezza personale del presidente della Bce potrebbe essere davvero l’ultima risorsa a disposizione delle istituzoni europee per vincere lo scetticismo sul loro futuro. L’ovvia obiezione che viene avanzata a queste considerazioni è che i Paesi poco seri, sono appunto, “poco seri” ed è colpa loro se le cose europee vanno male: facciano le riforme “supply-side”, diventino produttivi, riducano i debiti, e tutti vivremo felici e contenti nell’euro dei trattati.
Tutto vero: ma si tratta di osservazioni scolastiche che, nella realtà sono irrealizzabili perché incompatibili con i brevi/brevissimi tempi su cui si sviluppano le crisi che mettono sotto pressione la moneta unica e le istituzioni europee. Le riforme ‘supply-side’, le liberalizzazioni, la riduzione del perimetro pubblico in un’economia, la sostenibilità della spesa corrente pubblica e previdenziale sono le uniche ricette davvero efficaci per garantire benessere e stabilità a una comunità sul lungo termine, ma richiedono decenni, istituzioni robuste e decisori politici determinati ad affrontare riforme impopolari, che scardinano rendite e diritti acquisiti stratificati e la cultura che ne deriva.
Nell’attuale contesto di forte incertezza economica e di politica internazionale, recitare il rosario delle riforme supply-side non serve a scongiurare il rischio reale di una disgregazione dell’eurozona, al massimo possono essere un esercizio spirituale per rassicurarsi nelle proprie certezze. (Public Policy)
@leopoldopapi