Salario minimo, magari fosse così semplice

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di Leopoldo Papi

ROMA (Public Policy) – Il salario minimo, secondo i suoi sostenitori, dovrebbe servire a contrastare il lavoro povero, oppure, secondo alcuni, a spingere le aziende verso l’aumento della produttività interna compensando il maggior costo ricorrendo a investimenti e innovazione. Sorvolando sul fatto che i due obiettivi non necessariamente sono convergenti – più innovazione e automazione possono significare anche minor occupazione; per l’azienda: minori costi e problemi nella gestione del personale – ciò che sorprende dell’enfasi che viene data a questa misura, è l’attribuirgli un carattere taumaturgico, di rimedio miracoloso e di immediata applicazione a problemi storicamente difficili da trattare.

Magari fosse così semplice. Una riflessione più realistica sull’opportunità di questa misura dovrebbe forse, invece, muovere da una presa d’atto di realtà: il salario è un prezzo, generato dall’incrocio spontaneo tra domanda (le imprese) e offerta (le persone) di lavoro, o più propriamente, di prestazioni lavorative. Occorre sottolineare l’aggettivo “spontaneo”, e la sua logica implicazione economica: il “prezzo” di equilibrio non è eludibile, e rimane valido anche se lo si cerca di negare o alterare, imponendo politicamente un altro valore. Le distorsioni provocate dalle alterazioni di prezzo d’altronde sono ben noti alla teoria economica: prezzi “politici” troppo bassi generano penuria, troppo alti surplus inutilizzati.

Il salario minimo è un prezzo sotto al quale, per legge, non è possibile “acquistare” né “vendere” prestazioni lavorative. Per definizione è fissato a un livello più alto di quello di equilibrio (altrimenti, perché modificarlo?), e genera quindi un surplus di offerta di lavoro rispetto alla domanda. Persone che sarebbero disponibili a lavorare anche per compensi più bassi non trovano altresì un’occupazione perché al prezzo fissato per legge diventa sconveniente per le imprese avvalersene. L’effetto immediato del salario minimo, dunque, rischia di essere contrario alle intenzioni dei proponenti: non migliorare il reddito dei lavoratori poveri, ma escludere fasce di lavoratori marginali, poco o punto qualificati, dal mercato del lavoro legale, spingendole in quello del lavoro sommerso, con relativa assenza di qualsiasi tutela da forme di abuso e sfruttamento.

D’altronde il salario minimo non ha impatto sulle fasce di lavoratori ad alta produttività e con competenze elevate, perché il prezzo di equilibrio delle loro prestazioni si colloca spontaneamente al sopra di esso. Il che fornisce un’ulteriore conferma della considerazione, spesso mestamente ripetuta dagli economisti, per cui solo un aumento della produttività complessiva dei fattori di un’economia può determinare un incremento strutturale e stabile del livello medio dei redditi reali.

Molte obiezioni posso essere e vengono fatte a queste annotazioni. Ad esempio, che il salario minimo esiste in molti Paesi avanzati. È vero, ma ciò di per sé non lo rende esente dai potenziali effetti distorsivi sopra descritti. Si potrebbe peraltro plausibilmente attribuire questa sua diffusione all’alto grado di consenso popolare che una simile proposta ‘salvifica’ può garantire a chi se ne fa promotore. C’è chi invece cita studi empirici, condotti su aree economiche circoscritte, in cui la sua applicazione avrebbe generato un “effetto moltiplicatore” della produttività. Si tratta di casi senz’altro di interesse e che meritano approfondimenti, ma l’ovvio controfattuale è dato dalle aree povere del mondo: appare poco plausibile pensare di innescare una crescita virtuosa in Venezuela, in Somalia, o in certe aree depresse del Mezzogiorno in Italia) fissando per legge (magari, perché no, in valuta forte) il prezzo del lavoro a livelli che garantiscano a tutti un adeguato tenore di vita.

Dove c’è miseria, insicurezza, arbitrio giuridico, scarso capitale umano, infrastrutture inadeguate, istituzioni deboli, nessuno si arrischia ad investire. Una volta di più, l’aumento dei redditi reali dipende dall’aumento della ricchezza disponibile, e quindi dalla crescita nella capacità di produrla. Misure politiche e legali, che siano il salario minimo, il controllo dei prezzi, o altri interventi “taumaturgici” sull’economia – come i bonus edilizi, di tragicomica attualità italiana – appaiono illusorie scorciatoie, più utili a far crescere il consenso dei proponenti che l’economia. (Public Policy)

@leopoldopapi