Se l’Esecutivo diventa un gestibile alleato dell’establishment Ue

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di Lorenzo Castellani

ROMA (Public Policy) – La sconfitta di Alexis Tsipras in Grecia e la chiusura della procedura d’infrazione a carico dell’Italia sono due casi interessanti per analizzare il rapporto tra i Governi anti-establishment e l’Unione europea. Questa relazione è stata spesso drammatizzata dagli analisti ed esacerbata dall’ambiente mediatico, ma la storia mostra una realtà con più sfaccettature.

La sconfitta di Tsipras ha ragioni certamente socio-economiche, oltre un terzo dei greci in condizioni di povertà e una disoccupazione ancora superiore al venti per cento difficilmente avrebbero permesso al partito di governo di rivincere le elezioni. Tuttavia, la dinamica politica gestita male dal leader greco lo ha condannato alla sconfitta. Nel 2015 Tsipras portò in piazza il Paese e sottopose l’accordo con la Troika a referendum. Vinse nelle urne, il popolo greco respinse misure considerate draconiane ed ingiuste, ma nel frattempo esplose il panico sui mercati finanziari e il Paese arrivò ad un passo dal default. Un pezzo dell’establishment europeo e del Governo tedesco, con in testa l’allora ministro delle finanze Wolfgang Schuable, si stava preparando alla Grexit ma l’alleanza tra Merkel e Hollande, con il sostegno di Barack Obama, riaprì le negoziazioni con il premier greco. Tsipras evitò che il suo Paese venisse buttato fuori dall’euro ma fu costretto a sottoscrivere un accordo non troppo dissimile da quello che il referendum aveva bocciato. La credibilità del primo ministro ne ha risentito anche perché, cinque anni dopo, quelle misure non sono state il grado di rilanciare l’economia greca seppure l’hanno probabilmente salvata da un disastro ancor peggiore. Avere promesso la rivoluzione, provocato una tensione fortissima con l’Unione europea e aver poi firmato una lunga lista di impegni con la Troika ha indebolito il premier greco e lo ha costretto ad un processo di “disciplinamento esterno” dell’economia duro e politicamente fallimentare.

La vicenda greca ha insegnato cosa significhi sovrastimare il peso politico del proprio Paese e fare del populismo una ideologia più che un agire pragmatico. Piuttosto che avviare una negoziazione con le istituzioni internazionali Tsipras si è appellato oltremodo alla democrazia, innalzando ulteriormente i livelli di crisi economia e finanziaria, ed è stato poi costretto alla marcia indietro. Strategia che, dopo qualche anno, ne ha decretato la sconfitta politica. L’errore cruciale è stata la richiesta di ristrutturare il debito, derogando completamente alle regole europee ed allarmando gli investitori. Di fronte al muro di istituzioni e mercati, dal grido di “usciamo dall’euro” il premier si è poi ritrovato ad eseguire il programma della Troika.

In questo caso, per usare una metafora storica, il populismo ha fomentato la rivoluzione e si è ritrovato con un golpe in casa. Un segno che il consenso politico nazionale non è sufficiente per sabotare regole, istituzioni e mercati fortemente integrati tra loro. Gli obiettivi di una Unione europea più flessibile e meno invasiva non possono essere perseguiti dai Governi euroscettici di paesi deboli, come la Grecia, se non con una strategia di negoziazione graduale.

Questa lezione sembra essere stata compresa dall’attuale Governo italiano, il quale non sembra avere piani o strategie di riforma dell’Unione europea, del resto praticamente nessun Paese oggi ne ha, ma ha rallentato nella sua azione di contestazione. Dopo un inizio difficile, dovuto alla necessità di fornire immediati segnali immediati ai propri elettori, che ha portato i partiti ad alzare il rapporto deficit/Pil, a scontrarsi con la Commissione europea e a subire turbolenze sui mercati con la stesura della prima legge di Bilancio, il Governo ha iniziato a frenare. La legge di Bilancio 2019 è stato un azzardo corretto dapprima di fronte alla crescita dello spread e alle pressioni della Commissione e poi, nelle ultime settimane, sotto la minaccia della procedura d’infrazione.

Questa volontà di correggere e di ricucire con l’Unione europea è un segno della mutazione populista. Le due forze euroscettiche sembrano attraversare una fase di normalizzazione e di gestione del conflitto con Bruxelles. Ciò lascia supporre, grazie anche alla decisione presa da Mario Draghi di prolungare il Quantitative Easing, che la legge di Bilancio del 2020 possa essere meno problematica rispetto a quella dello scorso anno. L’impressione è che il Governo non scalpiti per forzare la mano sulle regole europee né tantomeno per mettere in discussione la permanenza nell’euro, come enfatizzato da alcuni analisti ed economisti.

Certo i toni ed il livello dello scontro tenderanno a salire a partire da settembre sia per ragioni di propaganda che per intavolare la contrattazione con la Commissione. Da ultimo, come abbiamo più volte scritto, il livello di frammentazione politica nel Parlamento europeo è molto aumentato, tanto che il candidato alla guida della Commissione Ursula von der Leyen potrebbe aver bisogno di alcuni voti provenienti da destra, come quelli degli eurodeputati della Lega ad esempio, oltre che di quelli della coalizione tra socialisti, popolari e liberali. In questo caso l’appoggio di Salvini potrebbe avere una ulteriore valenza strategica nelle negoziazioni con la Commissione su deficit e clausole di salvaguardia. Di fatto, un Governo che era nato per battere l’establishment europeo e scuotere le fondamenta dell’Unione europea rischia di diventarne un gestibile alleato. Spesso la realtà unisce negli intenti e crea spazi di collaborazione molto più delle ideologie, delle dichiarazioni e delle analisi di superficie. (Public Policy) 

@LorenzoCast89