di David Allegranti
ROMA (Public Policy) – Confuso, senza una rotta e una direzione politica. Indeciso se essere sovranista e neopopulista o draghiano. Con un problema evidente di selezione della classe dirigente. Poco o per nulla compatto dietro una leadership unificante. È la fotografia del centrodestra consegnata alla cronaca politica dalle elezioni amministrative.
L’effetto Draghi si è fatto sentire sui conservatori più che sui progressisti. Il presidente del Consiglio ha disarticolato la coalizione – da una parte i governisti con Forza Italia e Lega, dall’altra l’opposizione con Fratelli d’Italia – ma sarebbe ingeneroso attribuire le responsabilità della crisi del centrodestra a Mario Draghi, che in fondo si occupa, e giustamente, d’altro. Il centrodestra era probabilmente in crisi già da prima. È dal colpo di sole del Papeete che Salvini non ha saputo proporre un’agenda pubblica alternativa, anche a se stesso. Ha continuato a inseguire vecchi ritornelli su immigrazione e sicurezza, dimostrando di essere incapace – da leader politico – di adeguare la propria offerta politica e la propria comunicazione al contesto. Come se non fossimo nel mezzo di un’emergenza sanitaria ancora da superare. Salvini ha insomma scelto di non fare i conti con la storia, non capendo o facendo finta di non capire che una stagione si è conclusa. Certo, quella stagione sovranista e neopopulista aveva quantomeno il pregio della chiarezza, a differenza della confusione di adesso (non si può essere al contempo salviniani e draghiani).
Adesso al centrodestra non rimane che ripensare sé stesso, a partire dal tema della classe dirigente. I candidati sindaci impolitici non hanno fatto una grande figura, specie a Milano e Napoli. Perché i leader non sono scesi in campo? Perché non sono stati candidati parlamentari di spicco e di esperienza politica? Perché si è scelto, per appianare le differenze che pure esistono, di puntare sull’indistinto civico? Alla fine in politica arriva sempre il momento del disvelamento. Per il centrodestra è arrivato alle elezioni amministrative del 2021.
“È il ritorno del bipolarismo: o di qua o di là”, dice Andrea Romano, portavoce di Base riformista, in un tweet. “Ma con una differenza: a sinistra il Pd è baricentro e forza in grado di federare e fare egemonia; a destra è scontro quotidiano su linea, strategia, tattica, leadership, linguaggio”. Per il Pd è facile adesso passare all’incasso, ma la considerazione di Romano sul centrodestra è vera. Rimane da capire però che cosa sia il Pd. Ieri Enrico Letta, fresco vincitore alle elezioni suppletive a Siena, ha subito spiegato che in Italia il vento politico è cambiato e che con questi risultati il centrosinistra può arrivare al 2023 senza temere avversari grazie al fronte progressista largo. Forse, più semplicemente, il Pd ha saputo rimobilitare l’elettorato, cosa che al centrodestra non è successo. A Milano, per fare un esempio, dove c’è stata la partecipazione più bassa della storia (meno di un elettore su due è andato alle urne), la Lega ha perso oltre undicimila voti, fermandosi a 48.283 preferenze. Per poco non è stata superata da Fratelli d’Italia, che ha preso 43.889 voti (cinque anni fa furono appena 12.197). Forza Italia nel 2016 conquistò 101.802 voti, stavolta appena 31.819.
I problemi politici del centrosinistra non sono superati. Per mesi, il segretario Letta ha parlato soltanto di ddl Zan, ius soli e voti ai sedicenni. Non sono evidentemente questi i motivi che hanno spinto i cittadini a premiare i candidati sindaci nelle città al voto e non potrà essere questa la piattaforma delle prossime elezioni politiche. Lo ha spiegato Stefano Fassina, ex responsabile economico del Pd e deputato di Leu, nei giorni scorsi: la sinistra non può occuparsi solo di diritti civili e individuali, ma di temi sociali. Di lavoro. Lo ha spiegato Romano Prodi, in più occasioni.
Alle amministrative, il centrosinistra ha vinto perché ha candidato persone radicate sul territorio. Stefano Lo Russo, capogruppo del Pd in Consiglio comunale a Torino. Beppe Sala, sindaco uscente di Milano. Matteo Lepore, assessore uscente della giunta Merola. Non ha avuto bisogno dell’alleato grillino, neanche nelle città in cui si presentavano insieme. Dove invece Pd e M5s erano avversari, come nelle città un tempo amministrate dai 5 stelle, i populisti spariscono. A Torino il M5s ha preso l’8 per cento (era il 30 per cento nel 2016), a Roma l’11 (era il 35 per cento cinque anni fa). Anche la stagione dell’antipolitica populista ha – forse più di quella sovranista – esaurito la sua forza. Anche per essere antipolitici bisogna avere delle idee. I 5 stelle hanno finito la loro ragion d’essere storico-politica. Avanti il prossimo. (Public Policy)
@davidallegranti