di David Allegranti
ROMA (Public Policy) – La vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti inaugura una lunga serie di interrogativi. Uno di questi ci riguarda direttamente: l’Europa è pronta per il ritorno del tycoon alla Casa Bianca? Forse no, come gli ascoltatori di Primo Firmatario possono aver intuito ascoltando la conversazione con Fabio Napoli, giornalista di Policy Europe, venerdì scorso.
Eppure sarebbe necessaria una svolta. Lo aveva spiegato qualche mese fa, parlando con La Stampa, anche il politologo Yascha Mounk, a proposito della guerra: “Per 70 anni l’Europa sedicente ‘pacifista’ ha fatto le vacanze della Storia contando sul fatto che a proteggerla dall’Unione Sovietica e da altri pericoli internazionali ci fosse Washington. Le vacanze però sono finite, perché con Trump che controlla il Partito repubblicano l’America non sarà più un partner affidabile. Come se non bastasse, la Russia, è tornata a farsi minacciosa. L’Europa oggi può scegliere se imparare a difendersi o rassegnarsi a essere dominata da Mosca, da Pechino, da qualsiasi potere di turno. Nella storia del pensiero politico, Machiavelli docet, la libertà non è solo l’assenza di un dittatore ma la capacità di decidere il proprio destino. Viviamo una fase molto pericolosa”.
E ora, rispetto a quando è stata realizzata l’intervista con Mounk, quasi a inizio anno, c’è pure Trump, concretamente, di nuovo alla Casa Bianca, pronto a fare dell’unilateralismo la cifra stilistica della politica estera. Vedi le rivendicazioni nei confronti della Nato affinché i Paesi membri spendano di più e non si affidino soltanto agli Stati Uniti come sceriffo globale. Una faccenda inevitabilmente complicata. Oggi ancora di più di prima, forse, visti i tempi di vacche magre che corrono; bastava ascoltare in audizione, la settimana scorsa, le parole del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti: “Preme evidenziare che nonostante gli ingenti stanziamenti assegnati, l’obiettivo del 2 per cento del Pil richiesto dalla Nato risulta molto ambizioso e non del tutto compatibile sotto il profilo in particolare delle coperture con il quadro vigente della governance europea. Alla luce, infatti, degli stanziamenti previsti dal disegno di legge di bilancio arriveremo alla percentuale dell’1,57 per cento nel 2025, dell’1,58 per cento nel 2026 e dell’1,61 per cento nel 2027”.
Il che contribuisce a rendere ancora attuale la domanda che l’Economist poneva in copertina lo scorso 24 febbraio: “Is Europe ready”? “La Russia sta diventando sempre più pericolosa, l’America è meno affidabile e l’Europa rimane impreparata. Il problema è semplice, ma la portata della sua soluzione è difficile da comprendere. Gli accordi di sicurezza basati sulla Nato che sono emersi dalla seconda guerra mondiale – e che ne hanno impedito una terza – fanno talmente parte del tessuto europeo che rifarli sarà un compito immenso. I leader europei devono urgentemente abbandonare l’autocompiacimento post-sovietico. Ciò significa aumentare la spesa per la difesa a un livello che non si vedeva da decenni, ripristinare le trascurate tradizioni militari europee, ristrutturare le industrie degli armamenti e prepararsi a una possibile guerra. Il lavoro è appena iniziato”.
Ma gli interrogativi si affastellano e non riguardano soltanto la politica estera. Viene infatti da chiedersi quale sarà il ruolo di Elon Musk nella nuova amministrazione Trump, lui che la settimana scorsa ha partecipato a una call con Volodomyr Zelensky. Il presidente eletto degli Stati Uniti lo tiene in grande considerazione, come si capisce anche dall’intervento fatto dopo la vittoria alle elezioni, durante il quale ha lungamente parlato di Musk e dei suoi razzi, dai quali pare essere onestamente impressionato. La presenza dell’uomo più ricco del mondo accanto all’uomo politicamente (nuovamente) più potente della terra andrà studiata con attenzione, perché l’impressione è che il capo di Tesla e X non sia lì soltanto per tutelare le sue aziende e vendere meglio Starlink in giro per il mondo. (Public Policy)
@davidallegranti