Twist d’Aula – Affitti brevi, polemica lunga

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di Massimo Pittarello

ROMA (Public Policy) – In una Manovra di dimensioni ridotte e priva di interventi strutturali, la polemica sulla tassazione delle locazioni brevi è diventata una delle più rumorose, seconda solo a quella sulle banche. Un tema apparentemente marginale, ma capace di accendere contrasti nella maggioranza e di rivelare l’assenza di obiettivi chiari e di una valutazione complessiva del contesto economico.

La norma è nata tra Palazzo Chigi e via XX Settembre, su forte spinta del settore alberghiero. Subito dopo, Lega e Forza Italia hanno espresso contrarietà. Neppure la versione corretta — che limitava l’aumento al 26 % ai proprietari che si affidano a intermediari o piattaforme come Airbnb e Booking — ha ricomposto i dissensi, poiché avrebbe comunque riguardato circa il 90 % degli immobili. Alla fine, è possibile (probabile) che venga modificata in Parlamento. Giorgetti, custode dei conti spesso inflessibile, si è mostrato disponibile.

Un dibattito che riflette un equilibrio fragile: tra liberali contrari a nuovi oneri fiscali, una destra sociale sensibile alle categorie tradizionali (in primis Federalberghi) e chi spinge per una regolazione più estesa del mercato. Il risultato è una misura incoerente, più politica che economica.

Sul piano dei dati, il comparto degli affitti brevi non è trascurabile. Nei primi otto mesi del 2025 il mercato ha generato prenotazioni per circa 8,2 miliardi di euro, con un indotto stimato in 32,9 miliardi, per un totale di 41,7 miliardi di euro. Eppure, secondo la relazione tecnica, i redditi dichiarati da contratti di locazione breve ammontavano nel 2023 a soli 438 milioni di euro di imponibile. La priorità, quindi, dovrebbe essere l’emersione dal nero, non l’inasprimento delle aliquote.

Se l’obiettivo fosse contenere l’overtourism, l’esperienza mostra che l’aumento di imposte — dalla tassa di soggiorno a quella di sbarco — non ha mai ridotto i flussi turistici, ma solo complicato il quadro fiscale e irritato i visitatori, soprattutto quelli poco abituati alla complessità del sistema italiano.

Dal punto di vista distributivo, l’intervento sarebbe poco mirato. Per le seconde abitazioni l’aliquota è già al 26 %, quindi l’aumento colpirebbe chi integra un reddito più che gli operatori professionali. Gestire un solo appartamento comporta costi reali (pulizie, lavanderia, check-in) e un impegno assimilabile a un lavoro. Molti proprietari si affidano a gestori professionali con contratti a prezzo fisso, il che significa che l’inasprimento ricadrebbe proprio su chi cerca di ottimizzare al massimo il proprio immobile.

In sintesi, la proposta di aumentare la cedolare secca per gli affitti brevi appare come una misura di protezione corporativa più che una scelta di politica pubblica razionale: gettito marginale, effetti collaterali elevati (fuga nel nero, riduzione dell’offerta regolare), scarsa coerenza con gli obiettivi di concorrenza e sviluppo urbano. Soprattutto, tocca un tema politicamente sensibile: la casa. In un Paese in cui l’80 % delle famiglie è proprietario e su 36 milioni di abitazioni circa 9 milioni restano inutilizzate — un decimo già destinato agli affitti brevi — intervenire in modo superficiale rischia di alimentare incertezza e sfiducia. Per le polemiche è già stato fatto tutto il possibile. (Public Policy)

@m_pitta