Twist d’Aula – La distanza tra Davos e Washington

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di Massimo Pittarello

ROMA (Public Policy) – Il cappello di Melania Trump, il braccio di Elon Musk, la faccia di Kamala Harris, gli occhi di Mark Zuckerberg che cadono nel décolleté della moglie di Jeff Bezos. Più nella forma che nella sostanza, questi giorni in cui si discute dell’insediamento di Donald Trump sono anche i giorni in cui prende forma il via il 55esimo forum di Davos, che agli input arrivati da Washington potrebbe dare sostanza. Vedremo cosa accadrà nei prossimi giorni, ma una risposta la abbiamo già. Ed è in qualche modo collegata alla vittoria di Trump.

Più di 20 anni fa il movimento no-global identificò infatti il vertice della cittadina svizzera come uno dei suoi principali obiettivi. In quel luogo, secondo i manifestanti, un summit dei potenti della terra e di ceo di multinazionali dava la bussola alla globalizzazione e al dominio della finanza sull’economia. Se l’approccio può essere criticato, quel movimento lanciava allarmi abbastanza attuali: la progressiva divaricazione tra ricchi e poveri e la concentrazione della ricchezza, l’egemonia delle grandi corporation a cui seguivano la standardizzazione dei prodotti e delle culture e l’idea del commercio come panacea di tutti mali.

In occasione del vertice sono usciti i dati Oxfam, secondo cui l’1% della popolazione mondiale detiene il 45% dei patrimoni. Il Italia il 10% più ricco 14 anni fa aveva il 52,5% della ricchezza, oggi il 60%. Lo 0,1% in cima alla piramide ha registrato un balzo del 70%. Per i più poveri il processo è specularmente inverso. Prendendo fonti diverse, il risultato non cambia. L’indice Gini – che misura la diseguaglianza – è passato dallo 0,33 del 1991 allo 0,38 del 2021. A conclusioni simili arrivano tutti gli istituti, da Bankitalia alle Nazioni Unite. Lo stesso Fmi, individuato dai no-global come uno dei responsabili, già nel 2015 denunciò un problema nello squilibrio della ricchezza. E discorso simile vale per la lotta alle multinazionali, solo che prima il “nemico” era McDonald, mentre oggi è l’elusione fiscale delle Big Tech.

Se quei temi sono rimasti, i no-global non ci sono più. Al loro posto a Davos ci vanno gli ambientalisti di Greenpeace e alcuni attivisti che lanciano vernice contro i sussidi ai fossili. Ok. Ma quei temi ancora attuali? Li ha raccolti, elaborati, trasformati e se volte distorti qualcun altro. Trump, per esempio, con i suoi dazi vuole combattere la globalizzazione e così facendo raccoglie i voti tra la middle class della provincia Usa. Lo stesso accade in Francia con chi sostiene Le Pen, in Germania con chi dà consenso ad Afd, nel Regno Unito con chi ha preferito la Brexit. Il professor Tremonti da almeno due decenni scrive dei grandi danni della globalizzazione.

E certo fa specie vedere i padroni di Meta (Facebook e Instagram), di X fu Twitter, di ChatGPT, Apple, TikTok, Amazon eccetera tutti insieme al Campidoglio a celebrare l’avvio della seconda presidenza Trump. Anche perché fino a qualche tempo fa (molto prima del cambio di approccio di Zuckerberg), troppo spesso i social e il web sono stati interpretati come strumento di diffusione di libertà (vedi le primavere arabe o la campagna elettorale di Obama). E forse lo sono ancora. Ma se prima i no-global lanciavano il boicottaggio di McDonald, oggi chi contesta Trump compra su Amazon di Bezos dei telefoni Apple, o su Whatsapp di Zuckerberg si scambia meme sul cappello di Melania. Ma nessuna analisi del discorso di Trump. Che intanto lancia il suo memecoin. (Public Policy)

@m_pitta