Twist d’Aula – Tesoretto in caduta, Governo col cacciavite

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di Massimo Pittarello

ROMA (Public Policy) – Se il new normal della legge di Bilancio è, da anni, una Manovra dai margini sempre più stretti – dai 35 miliardi del 2023 ai 23 del 2024, fino agli attuali 18,7 – con gli investimenti che scorrono altrove, da Bruxelles via Pnrr oggi e dal Fondo europeo per la Difesa domani, c’è però un nuovo instant classic: la riduzione del “tesoretto” a disposizione dei parlamentari.

Se guardiamo alle cifre, ammontava a circa 700 milioni nel 2022, 400 nel 2023, poco meno di 200 nel 2024; per questa edizione, secondo le prime indiscrezioni, potrebbe scendere sotto i 100 milioni. L’era degli “emendamenti onerosi” è praticamente chiusa.

È una perdita di margine politico, un approccio quasi minimale che, fermando il tradizionale “assalto alla diligenza”, evita ulteriori danni all’immagine di deputati e senatori – anche se riduce la possibilità di costruire consenso sul territorio. Ma è anche la misura di una legge di Bilancio che si riduce a atto contabile, non più politico.

L’ultima fenomenologia di questo svuotamento delle risorse parlamentari si è palesata con il decreto legge 156/2025 (il dl Economia), che a settembre ha già impiegato circa 2 miliardi per una serie di misure – dissesto degli enti locali, transizione digitale di imprese e Pa, RFI, Olimpiadi Milano-Cortina 2026 – somme che in passato sarebbero finite in Manovra.

Il risultato è una legge di Bilancio sempre meno nella disponibilità del Parlamento, ridotto ormai al ruolo di correttore di bozze del testo scritto dal Governo (che comunque avrà l’ultima parola con il maxiemendamento).

Anche l’impostazione generale della Manovra racconta la stessa tendenza. Dei 18,7 miliardi, la gran parte prende un’unica direzione: sette miliardi sull’Irpef, quattro e mezzo sul cuneo contributivo, poco più di un miliardo e mezzo di credito d’imposta per gli investimenti privati e qualche centinaio di milioni per i contratti pubblici. Il resto è micro-misura, bonus residuale, detrazione a tempo. È la “manovra amministrata”, più che economica.

In questo quadro, la politica del cacciavite – che nel 2013 segnò il fallimento di Enrico Letta – diventa oggi la cifra di Giorgia Meloni. Niente rivoluzioni, pochi rischi, Manovre miniaturizzate ma in ordine: è la versione contabile del primum non nocere.

Alla fine, la legge di Bilancio 2026 conferma una tendenza consolidata: la politica economica tradizionale, quella che un tempo faceva della Finanziaria “la legge più importante dello Stato”, è diventata gestione ordinaria. Anche per questo le critiche – paradossalmente convergenti – di Cgil e Confindustria, pur funzionali sul piano comunicativo, risultano poco incisive sul merito.

Il Parlamento amministra, Bruxelles investe, il Governo regola. E quella che un tempo era “la politica del cacciavite” è oggi il modo per tenere insieme i conti, l’Europa e la maggioranza. Un equilibrio stabile, almeno finché nessuno prova davvero a stringere troppo una vite. O finché non arriva un cedimento strutturale – e, invece del cacciavite, servirà una motosega. (Public Policy)

@m_pitta