Un partito per Draghi: riflessioni sul futuro politico di “Mr. Fix-it”

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di David Allegranti

ROMA (Public Policy) – Non ci sarà mai, probabilmente, un partito di Mario Draghi. Un partito insomma personale, alla Mario Monti o alla Lamberto Dini. Ma potrebbe nascere un partito per Draghi, che in questi giorni è stato ribattezzato dal New York Times “Mr. Fix-it”, con una tempistica che gli osservatori giudicano interessante. Uno che risolve problemi, insomma, come il celebre Signor Wolf di Pulp Fiction. Una eventuale formazione per Draghi avrebbe i contorni, più accessibili viste le riottosità del panorama politico italiano, di una coalizione ampia e trasversale anziché di un partito strutturato. Proprio perché il Governo Draghi nasce sull’intreccio di forze politiche con sensibilità diverse ma unite dall’emergenza.

Una volta finita la pandemia, resterà la gestione delle sue durissime conseguenze socio-economiche. Resteranno però anche molti denari pubblici, se tutto andrà come deve andare. Sarebbe dunque il Pnrr l’agenda politica del partito per Draghi. Giustizia, infrastrutture, ripresa economica. Non c’è bisogno di inventarsi molto, il programma draghiano è già stato scritto. “Fra gli obiettivi: completare il lavoro fino al 2026 della spesa del Recovery, con tutte le riforme connesse e con monitoraggio continuo della spesa e degli inevitabili ulteriori aggiustamenti delle riforme stesse che si renderanno necessarie”, dice a Public Policy un senatore del Pd molto interessato al dossier. Altro obiettivo: ottenere dall’Europa che il Next Generation Eu diventi strutturale. In questo modo Draghi potrebbe presentarsi con le funzioni di leader europeo di maggior prestigio e autorevolezza, l’erede di Angela Merkel insomma, e consolidare l’asse con gli Stati Uniti e con il presidente Joe Biden (da qui il tempismo giudicato interessante dell’articolo del New York Times).

Anche l’ipotetico schieramento draghiano ci sarebbe già, in vista delle elezioni 2023: una maggioranza di tipo Ursula rivisitata, con un pezzo di notabili di centrosinistra, l’ala giorgettiana della Lega, inevitabilmente Forza Italia (quella almeno che non vuole finire definitivamente colonizzata da Matteo Salvini e Giorgia Meloni), spiccioli centristi e forse persino qualche esponente del M5s (il Luigi Di Maio di turno). Questo schieramento creerebbe non pochi problemi a Giuseppe Conte, a Matteo Salvini e a Enrico Letta, i leader che hanno più da perdere in uno scenario simile. La blanda agenda Letta poi ne verrebbe spazzata via, dal ddl Zan allo ius soli al voto per i sedicenni, del tutto incompatibile con l’urgenza del momento.

Resta da capire però quando questa coalizione politica-tecnico (con inevitabili accenni civici dettati dal profilo di Mario Draghi) potrebbe mai affacciarsi all’orizzonte: forse con l’elezione del presidente della Repubblica questo corpaccione potrebbe manifestarsi nel segreto dell’urna. Questo scenario tuttavia creerebbe non pochi problemi per la scelta del successore di Sergio Mattarella. Draghi è arrivato a Palazzo Chigi sull’onda dell’emergenza, ma se dovesse costruirsi questo profilo politico con l’ampio sostegno trasversale di un movimento che va dai riformisti del Pd a Giorgetti a Renzi, inevitabilmente la missione di Draghi rientrerebbe nell’ordinario. Potrebbe mai a quel punto l’attuale presidente del Consiglio concepire un presidente della Repubblica dal profilo forte? “Starebbe tranquillo se fosse rieletto Mattarella, per un mandato pieno però, non per un anno, perché altrimenti il tema di Draghi presidente della Repubblica si porrebbe nuovamente nel 2023”, osserva ancora il senatore del Pd.

Un Governo Draghi nato da questa coalizione avrebbe inevitabilmente un carattere politico, nella sua composizione. Il che non significa, appunto, tralasciare l’impronta civica. Troverebbero casa, abbastanza facilmente, Matteo Renzi, Carlo Calenda, Emma Bonino, Giancarlo Giorgetti, Renato Brunetta e qualche ministro tecnico dal profilo marcato, alla Roberto Cingolani. Non mancherebbe la presenza, forse, di qualche riformista del Pd, rimasto orfano di centralità politica dopo l’addio di Renzi e schiacciato dagli Andrea Orlando e dai Peppe Provenzano. La coalizione draghiana potrebbe essere competitiva e costringerebbe quantomeno i sovranisti a rivedere la loro agenda pubblica euroscettica. Purché, naturalmente, Draghi riesca a portare a casa i soldi del Recovery Plan, condizione necessaria ma non sufficiente: vanno anche spesi bene (Public Policy)

@davidallegranti

(foto: cc Palazzo Chigi)