di Leopoldo Papi
ROMA (Public Policy) – Public Policy compie 10 anni. Il 15 marzo 2012 registravamo la testata, primo atto costitutivo di una realtà che, al tempo, era solo un progetto astratto: fare giornalismo sulle “policy”. Non raccontare quindi la pur rilevante “politica politichese”, ma informare sulla dimensione operativa delle decisioni pubbliche – cioè il processo politico-legislativo – lavorando sul campo, seguendo di persona le sedute delle commissioni parlamentari, e ottenendo le notizie da fonti dirette e dai documenti. Con questi obiettivi iniziammo da zero, molto giovani, senza esperienza e sconosciuti alla “comunità delle istituzioni” per molti aspetti piuttosto chiusa e diffidente nei confronti degli outsider, e senz’altro difficile da comprendere ai non addetti ai lavori.
Il decennale rappresenta dunque un traguardo importante, ed è una buona occasione per alcune riflessioni sull’intera esperienza. La prima riguarda senz’altro le professionalità in campo. Public Policy è stata una vera startup giornalistica, per il carattere innovativo e un po’ azzardato del progetto, l’inesperienza iniziale e l’intraprendenza del gruppo di persone che l’hanno negli anni costruita e fatta crescere. Il giornalismo, a differenza degli altri settori produttivi, non ha alcun capitale fisico rilevante. Gli unici capitali di una testata sono la propria credibilità e reputazione nel garantire un’informazione precisa e accurata al pubblico, e tali fattori immateriali risiedono interamente nelle professionalità individuali dei suoi giornalisti. Nel 2022 Public Policy non è più un’ipotesi progettuale, un “question mark”, per usare il linguaggio del business, ma una realtà di eccellenza nell’informazione istituzionale, come tale riconosciuta da molti soggetti diversi: istituzioni, aziende, associazioni di categoria, sindacati, realtà del terzo settore, media. Questa reputazione è senza dubbio il prodotto dell’alta professionalità e esperienza maturata sul campo, giorno dopo giorno e anno dopo anno, dai giornalisti dell’agenzia.
I dieci anni trascorsi sono stati un periodo turbolento della storia italiana, segnato da gravi crisi economiche e sociali, e da eventi collettivi traumatici che hanno polarizzato il dibattito pubblico, stravolto il quadro politico, condizionato le agende istituzionali e le sorti di Governi e maggioranze parlamentari. Dal Governo Monti e dalla crisi dell’euro e dei debiti sovrani di cui l’Italia è stata protagonista, fino alla pandemia, dalle vicende dei Governi Conte all’arrivo del Governo Draghi e alla drammatica guerra in Ucraina di questi giorni, Public Policy ne è stata testimone attraverso gli eventi legislativi: un corpus di circa 750 leggi approvate, 10 leggi di bilancio, più di 250 decreti legge e 450 decreti legislativi, nell’arco di tre legislature in cui si sono succeduti sette Governi, che abbiamo seguito in migliaia di ore di attese e lavoro davanti alle commissioni, ascoltando audizioni, interpretando documenti normativi, interloquendo con esponenti politici, staff parlamentari e funzionari dello Stato.
Questo ormai significativo percorso ci ha reso consapevoli anche della centralità e del ruolo insostituibile del giornalismo politico e parlamentare – e in generale del giornalismo – per la buona salute di un sistema democratico. Nel 2012, quando abbiamo iniziato, vi era molto entusiasmo e euforia sull’uso politico dei social media. “Ora non servono più le agenzie di stampa, le notizie si leggono su Twitter e Facebook”, si scherzava nei corridoi e nelle anticamere parlamentari. Si pubblicavano saggi e si organizzavano convegni sull’ormai sopravvenuta “era della disintermediazione” nella comunicazione politica. Qualcuno sosteneva financo la possibilità di prevedere l’esito degli iter legislativi attraverso algoritmi capaci di analizzare il “sentiment” di parlamentari e decisori pubblici sui social media. Gli eventi di questi anni hanno dimostrato l’infondatezza e l’ingenuità di quelle posizioni, evidenziando l’indubbia utilità di questi strumenti, ma anche i gravi rischi che rappresentano per i processi democratici, in termini di diffusione di notizie false, polarizzazione delle opinioni, insorgere di pericolosi settarismi violenti e ideologie populiste.
Il giornalismo può senz’altro commettere molti errori. Ma a differenza delle “fonti aperte” o della comunicazione disintermediata sui social, viene svolto da professionisti che si assumono la responsabilità personale di fronte al pubblico delle informazioni e delle notizie che riferiscono, mettendoci la faccia e firmando il loro lavoro. Si ritorna, quindi, sempre al tema cruciale della credibilità e reputazione di una testata e dei suoi giornalisti. La sua costruzione è stata il traguardo raggiunto di questo primo decennio, con tanto lavoro e impegno da parte di tutta la squadra di Public Policy. Rafforzarla e arricchirla di nuove iniziative è la sfida per il futuro. (Public Policy)
@leopoldopapi