di Massimo Pittarello
ROMA (Public Policy) – “Dalla Russia con amore”. Né un film né una provocazione, ma il nome – serissimo – che il Governo di Giuseppe Conte diede esattamente due anni fa alla prima missione ufficiale dell’esercito russo sul suolo italiano. Operazione che doveva essere di aiuto nei primi giorni nell’emergenza Covid, ma che si rivelò di spionaggio e intelligence. Per quanto sembra passata un’era, nei 5 stelle ancora serpeggia un diffuso sentimento anti- atlantista. E questo potrebbe essere un problema, specie per il Pd. Dall’altro lato, i legami della Lega con Mosca, al di là dei presunti finanziamenti diretti, si evincono nelle sequela di dichiarazioni di Salvini che oggi appaiono più paradossali (“La Russia è molto più democratica dell’Unione europea”, 11 marzo 2015; “Qualcuno ha mica paura di essere invaso dai russi?” 18 ottobre 2016; “Chi dice che è un dittatore sanguinario ha dei problemi”, 29 novembre 2017; “Putin è uno dei migliori uomini di governo sulla faccia della terra”, 12 luglio 2019). E certo, per il resto della Lega e del centrodestra questo potrebbe essere un problema ben più grave della figuraccia di Salvini in Ucraina.
Dal giorno dell’invasione, come sempre accade nelle situazioni di crisi, il Governo Draghi è entrato in una nuova fase di stabilità. Nonostante l’ingorgo parlamentare composto da sei decreti legge già in discussione, più altri quattro in arrivo nei prossimi giorni (senza dimenticare il Def, sui cui serve la maggioranza assoluta), è difficile pronosticare sorprese. Anche se non mancherebbero questioni divisive. Per esempio, dopo lo scontro sul catasto, quando la maggioranza è rimasta in piedi in commissione alla Camera per un solo voto, Meloni si è recata al Quirinale (giovedì scorso). Ha votato a favore del Governo sulla linea da tenere sulla guerra e sull’invio di armi. Infine, all’Europarlamento ha appoggiato la risoluzione di condanna verso i partiti che hanno stretto “accordi di cooperazione” con il partito di Putin, di fatto sgambettando la Lega di tendenza filorussa. Insomma, a differenza di Salvini, Meloni non cede all’ambiguità ma si posiziona stabilmente nella cornice euroatlantica, seppur senza adesioni incondizionate.
Bisogna sottolineare che il Pd, come anche il “partito dei governatori” interno alla Lega, come anche molte altre forze politiche, non sta tentennando. Tantomeno il Governo, che dal giorno del discorso di insediamento alle Camere ha imposto la prima, assoluta, novità: la collocazione chiaramente euro-atlantica. D’altra parte, prima il Covid e poi questo tragico conflitto hanno dimostrato quanto le sirene di Pechino e Mosca fossero in realtà dei canti delle sirene. E se pure gli italiani hanno la memoria corta, lo stesso non si può dire per le diplomazie. Per cui, vedremo come sarà cambiato lo scenario internazionali quando arriverà l’appuntamento con le urne del 2023, ma certo – tra i mille stravolgimenti causati su questa guerra – c’è anche quello sugli schieramenti italiani. O meglio, su una politica estera che condiziona la politica interna.
Abbiamo già visto diverse volte (con la caduta di Berlusconi nel 2011, ai tempi della formazione del Governo gialloverde nel 2018, ai tempi del Papeete nel 2019 e infine con l’avvento di Draghi nel gennaio 2021) quanto le cancellerie straniere siano in grado di condizionare, ostacolare, interrompere la strada che porta a Palazzo Chigi. D’altra parte, essendo noi grandi debitori too big to fail, non possiamo ammazzarci da soli. Ora, sia Letta che Meloni hanno assunto posizioni nette, rapidi nel definire la linea, e ora puntano entrambi a vincere le prossime elezioni. Entrambi hanno tuttavia un problema, quasi speculare: le ambiguità e le incertezza di parte dei 5 stelle e della Lega. Non siamo ancora nella situazione della Guerra Fredda, quando verso il Pci che parteggiava per i sovietici era in vigore una conventio ad exlcudendum che gli impediva di accedere al Governo nazionale. Ma ci siamo molto vicini. (Public Policy)
@m_pitta
(foto cc Palazzo Chigi)