Appunti per la ricostruzione che ci attende

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di Andrea Picardi*

ROMA (Public Policy) – Il coronavirus tiene l’Italia con il fiato sospeso e ci fa interrogare su molte delle scelte che abbiamo compiuto in passato e sulle decisioni che dovremo assumere quando, speriamo il prima possibile, saremo riusciti a sconfiggere questa terribile pandemia. In queste giornate così drammatiche ci stiamo accorgendo come, negli ultimi anni in particolare, siano stati costantemente sottovalutati settori strategici la cui importanza abbiamo tragicamente imparato a riconoscere e ricordare a causa del coronavirus.

Il caso più emblematico è rappresentato dalla sanità, fortemente tagliata nel decennio della crisi economica e oggi in grave difficoltà per via dell’inadeguatezza delle strutture e dello scarso numero di macchinari per la terapia intensiva e di personale. Ma lo stesso potrebbe dirsi per la ricerca o per l’istruzione, per non parlare della digitalizzazione del Paese. Lezioni da tenere a mente per la ricostruzione che ci attende, cui se ne aggiunge almeno un’altra di carattere istituzionale: la disciplina della distribuzione delle competenze tra Stato e regioni, che non ci ha permesso, soprattutto nelle prime settimane dell’emergenza, di procedere in modo spedito e compatto su tutto il territorio nazionale.

I TAGLI ALLA SANITA’

Come molti cittadini hanno potuto constatare anche di persona, negli ultimi anni sono stati numerosi gli ospedali e i presidi sanitari ridimensionati o chiusi del tutto. I numeri, d’altronde, confermano la sensazione di una sanità via via sempre meno centrale nel dibattito pubblico e nel bilancio dello Stato. Un recente paper della Commissione europea ha fatto il punto sugli investimenti italiani in materia e il quadro che ne emerge non lascia spazio a dubbi. Nel 2017 la spesa sanitaria pro capite nel nostro Paese ammontava a 2.483 euro, il 15% in meno della media dell’Unione pari, invece, a 2.884 euro. Una somma che corrispondeva, nel complesso, all’8,8% del nostro prodotto interno lordo, ossia un punto percentuale al di sotto della media degli altri Stati Ue. La classifica del vecchio continente vede la Norvegia al primo posto, seguita da Germania, Austria e Svezia. Anche Francia e Regno Unito, tra gli altri, fanno meglio di noi mentre la Spagna si posiziona leggermente al di sotto. Le notizie che arrivano da Milano dove si lavora incessantemente alla costruzione del nuovo reparto di terapia intensiva dell’Ospedale San Raffaele – resa possibile dalla raccolta fondi avviata da Chiara Ferragni e da Fedez – rappresentano una spinta a fare in fretta e a fare bene per rafforzare la nostra sanità. Ora, nell’immediato, per sconfiggere il coronavirus ma anche dopo, quando saremo riusciti finalmente a metterci questa emergenza alle spalle.

IL PRIMATO DEI COMPETENTI

D’altro canto in queste settimane scandite a livello planetario dalla diffusione del Covid-19 stiamo anche assistendo al rinnovato (e ben ritrovato) primato dei competenti. E’ agli infettivologi, agli pneumologi e agli infermieri che guardano con più speranza in questa fase tutti gli italiani. Ma anche agli economisti in grado di trovare soluzioni concrete per rispondere adeguatamente alla tempesta perfetta che si è abbattuta sul Paese. Oppure ai manager e agli uomini di lungo servizio – vedi alla voce Domenico Arcuri e Guido Bertolaso – che hanno dimostrato sul campo di avere conoscenze ed esperienze adeguate alla sfida che stiamo vivendo. Una vera e propria rivoluzione del merito di cui siamo chiamati a fare tesoro per il futuro, a partire dal luogo nel quale, per antonomasia, le competenze si formano. Ossia la scuola e l’università. Tuttavia, negli ultimi anni è come se l’Italia avesse dimenticato quanto sia importante poter contare nel medio e nel lungo termine su un sistema di istruzione solido ed efficiente. E i dati, pure in questo caso, dicono molto di più di mille parole. L’Eurostat attesta che nel 2017 abbiamo speso 66 miliardi di euro, 6 in meno dei 72 che investivamo in materia nel 2009. Una cifra che ci dice molto della nostra scarsa capacità di visione soprattutto se rapportata alla spesa pubblica complessiva e al totale del prodotto interno lordo. Dal primo punto di vista siamo addirittura ultimi in Europa: nessuno investe nell’istruzione così poco come facciamo noi. Solo il 7,9% della spesa pubblica totale. La Germania, ad esempio, nel 2017 si attestava al 9,3%, il Regno Unito all’11,3 e la Francia al 9,6. Una percentuale, la nostra, che peraltro si è anche ridotta nel tempo: nel 2009 andava all’istruzione il 9% della spesa pubblica italiana, l’1,1% in più del 2017. E se guardiamo al Pil non è che le cose vadano particolarmente meglio: i nostri 66 miliardi rappresentano solo il 3,8% del prodotto interno lordo nazionale e ci fanno guadagnare uno degli ultimi posti in classifica. A livello continentale peggio di noi fanno solo Romania, Irlanda, Bulgaria e Slovacchia. La riscoperta della competenza – che si spera possa andare ben oltre l’emergenza coronavirus – potrà avere un impatto reale sul Paese solo se torneremo a puntare con forza sull’istruzione. L’Italia e gli italiani se lo meritano.

L’IMPORTANZA DELLA RICERCA

Il 3 febbraio scorso, quando l’epidemia sembrava ancora pressoché relegata in Cina, l’Italia ha annunciato di essere riuscita a isolare il virus. “Siamo tra i primi a riuscirci”, titolarono i telegiornali e i quotidiani. Una scoperta che portava con sé due tipi di valutazioni: da un lato la grande qualità della ricerca nel nostro Paese, dall’altro l’elevato numero di precari attivi in questo settore in Italia, tra i quali compariva anche il nome di una delle ricercatrici protagoniste di quel risultato così importante (la cui assunzione è stata poi annunciata il successivo 13 febbraio). Ed effettivamente, a guardare i dati, ci si rende subito conto di quanto la ricerca pubblica da noi venga scarsamente considerata, almeno quando si tratta di destinarle risorse. Secondo le elaborazioni dell’Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia (ADI), nel 2018 i posti di dottorato banditi in Italia nel 2018 hanno subito una riduzione del 3,5% su basa annua, passando a 9.288 a 8.960. E se si considera il 2007, i dottorati si sono ridotti addirittura del 43,4%. Una riduzione che non è stata uniforme sul territorio italiano: tra il 2007 e il 2018 infatti, nel Nord è stato tagliato il 37% dei dottorati, nel Centro il 41,2% e nel Mezzogiorno il 55,5%. Questa dinamica non fa che aumentare le differenze che già esistevano tra le tre grandi macroaree del Paese: oggi il Nord conta il 48,2% del totale dei dottorati banditi in Italia, il Centro il 29.6% e il Mezzogiorno il 22.2%. Una fotografia confermata dal rapporto dal titolo “Il mercato del lavoro 2018” redatto da ministero del lavoro, Istat, Inps, Inail e Anpal, che ha preso anche in considerazione l’attività svolta all’estero dai ricercatori italiani il cui tasso di occupazione presso enti pubblici di ricerca oltreconfine è molto più elevato: il 7,4% contro il 2,4 del nostro Paese, ben il triplo in più. D’altro canto, secondo l’Ocse, la spesa pubblica italiana in ricerca e sviluppo è pari allo 0,5% del prodotto interno lordo mentre la media europea si attesta allo 0,7%. Se vogliamo davvero voltare pagina e ingranare la marcia della ricostruzione, non potremo che tornare a puntare con forza, non con le semplici parole ma con soldi veri, sui nostri ricercatori.

IL DIGITALE CHE UNISCE IL PAESE

Nei giorni della grande serrata causa coronavirus – in cui i cittadini, salvo eccezioni, sono tenuti a rimanere nelle loro case e le aziende a optare, laddove possibile, per lo smart working – il digitale si è rivelato il più grande alleato degli italiani. Lontani fisicamente, ma vicini tra loro – nelle famiglie, nelle scuole, nelle università, nelle aziende – grazie alla rete e alla tecnologia. Uno stato di eccezione che sta digitalizzando il Paese, e soprattutto le persone, come mai era accaduto prima. Ma qual è la condizione dalla quale partiva l’Italia? Lo stato dell’arte lo aveva fotografato qualche mese fa l’Istituto per la Competitività (I-Com) con lo studio dal titolo “Non voglio mica la luna. Le tecnologie digitali al servizio degli italiani”, con un focus sul piano della domanda e dell’offerta digitale nel nostro Paese. Ovvero, sul grado di digitalizzazione degli italiani e sul livello di sviluppo delle infrastrutture tlc. Dal rapporto emerge come l’Italia fosse 23° in Europa da questo punto di vista. Una posizione stabile in confronto all’anno precedente, ma in calo rispetto al 2017, quando era 22° in Europa. Risultato dovuto soprattutto alla debolezza della domanda digitale che cresce, ma non a sufficienza, e che si attesta al di sotto della media europea: il divario (negativo) è particolarmente accentuato nell’e‐commerce, usato da appena il 36% della popolazione, e nella sottoscrizione di abbonamenti con una velocità di connessione superiore a 100 Megabit per secondo (Mbps), che rappresentano poco meno del 15% del totale e neanche la metà della media europea. Dallo studio emerge in sostanza come il grado di digitalizzazione degli italiani cresca a ritmi troppo bassi rispetto alla media europea: non è un caso che sotto questo profilo facciano peggio di noi in Europa solo Cipro, Croazia, Grecia e Bulgaria. In un anno, tra il 2018 e il 2019, l’Italia in questa speciale classifica ha totalizzato 4,8 punti in più, grazie soprattutto all’incremento della sottoscrizione di abbonamenti con connessione veloce, passati dal 2 al 15%: un aumento però insufficiente a scalare posizioni in graduatoria visto che siamo rimasti al 24° posto. Anche perché gli altri sono cresciuti di più: come ad esempio Spagna e Portogallo che nell’ultimo anno hanno fatto un balzo in avanti di quasi 7 punti. A proposito dell’offerta invece, e quindi sostanzialmente del livello di sviluppo delle infrastrutture, l’Italia fa molto meglio. In questa specialità, secondo l’indice I‐Com, siamo 15° in Europa con un punteggio di 85,8 su 100, dovuto soprattutto alla ormai quasi totale copertura raggiunta nelle aree rurali e nella rete Next generation access (Nga). Tuttavia, rispetto al 2018 abbiamo perso due posizioni, a vantaggio di Ungheria ed Estonia, soprattutto per via delle difficoltà amministrative e degli impedimenti burocratici che ancora rallentano la realizzazione e il miglioramento delle infrastrutture tlc nel nostro Paese. Il digitale sta unendo l’Italia in questa fase di crisi, la speranza è che lo faccia sempre di più anche quando l’emergenza sarà terminata.

UN NUOVO RAPPORTO TRA STATO E REGIONI

E poi i temi di carattere istituzionale sui quali molto ci sarà da dire nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Difficile pensare che le forze politiche possano non prendere atto di quanto in questi giorni così drammatici ha dimostrato di non funzionare, a partire dalla questione mai risolta dei rapporti tra Stato e Regioni lungo i quali si sono sviluppate interminabili polemiche. Non aver previsto una clausola di supremazia in grado di consentire allo Stato centrale di assumere pienamente il timone in certe situazioni ha partorito i continui scontri di questi giorni tra Palazzo Chigi e le Regioni, con tutte le ripercussioni sul sistema Paese che ne sono derivate in termini di tempestività e di coerenza delle decisioni assunte. E, forse, pure di salute pubblica. Ne dovremo riparlare quando, speriamo presto, il coronavirus sarà alle nostre spalle. (Public Policy)

*direttore comunicazione Istituto per la Competitività (I-Com)