Balneari e Milleproroghe: perché promulgare una legge incostituzionale?

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di Carmelo Palma

ROMA (Public Policy) – L’articolo 117, primo comma della Costituzione stabilisce che la potestà legislativa sia esercitata dallo Stato e dalle Regioni “nel rispetto…dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Quando una legge approvata dal Parlamento contrasta in modo palese con questi vincoli, emergono dunque profili di manifesta incostituzionalità, che ne giustificano il rinvio alle Camere da parte del presidente della Repubblica.

Questo accadde ad esempio nell’ultima occasione in cui il capo dello Stato – che era anche allora Sergio Matterella – esercitò il potere riconosciutogli dall’articolo 74 della Costituzione (“Il presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione”), quando nel 2017 rinviò alle Camere la legge “Misure per contrastare il finanziamento delle imprese produttrici di mine antipersona, di munizioni e submunizioni a grappolo”, ritenendo che, tra le altre cose, la causa di esclusione della punibilità riconosciuta ad alcuni soggetti (ad esempio, i vertici di istituti bancari e intermediari finanziari) si ponesse in contrasto con le convenzioni di Oslo e di Ottawa. Il principio della manifesta incostituzionalità costituisce a un tempo la giustificazione e il limite del potere presidenziale in ordine alla mancata promulgazione di una legge. Serve a legittimare, ma anche a circoscrivere, nel suo perimetro formale e nei suoi presupposti sostanziali, un atto di contrasto alle decisioni del Parlamento oggettivamente traumatico dal punto di vista istituzionale.

Si tratta peraltro di un principio dottrinario elaborato in tempi relativamente recenti, sotto la presidenza Ciampi, che non esclude motivazioni diverse per il rinvio presidenziale, relative al merito e agli effetti delle norme censurate e che ha la funzione di vincolare questo potere così forte e impattante a motivazioni altrettanto decisive e dirimenti, non arbitrarie o puramente discrezionali.

Rimane il fatto che quello riservato al Quirinale dall’articolo 74 della Costituzione è un potere politico, non giurisdizionale. La valutazione per il suo esercizio tiene conto anche di altri aspetti della funzione presidenziale, che non attengono al sindacato di legittimità costituzionale, ma alla garanzia dell’equilibrio e della continuità dell’attività legislativa e di governo. Detto in termini sommari, la manifesta incostituzionalità di una norma, anche se apprezzata con ragionevole certezza dal capo dello Stato, lo autorizza, ma non lo obbliga a rinviare una legge alle Camere per un nuovo esame. In ogni caso la Costituzione non consente al Quirinale di “vietare” del tutto leggi che giudichi manifestamente incostituzionali, poiché se le camere approvano nuovamente la legge rinviata, nella identica formulazione, questa deve essere promulgata.

Come è noto, recentemente il Quirinale ha promulgato con riserva la legge di conversione del decreto cosiddetto Milleproproghepur censurando l’approvazione di una norma sulla durata delle concessioni balneari, prorogate dal 31 dicembre 2023 al 31 dicembre 2024, che contrasta in modo diretto con la normativa comunitaria, come stabilito dalla Corte di Giustizia europea e confermato dal Consiglio di Stato, che aveva fissato il termine ultimo e inderogabile del 31 dicembre 2023, decorso il quale ulteriori proroghe, anche disposte per via legislativa, cesseranno di produrre effetti e potranno essere direttamente disapplicate sia dai giudici che dalla pubblica amministrazione.

Perché allora il capo dello Stato ha promulgato una legge che configura una violazione così patente dell’art. 117 della Costituzione? Perché la sua scelta dipende dalla necessaria ponderazione dagli effetti della decisione. Detto in termini di economia costituzionale, è una scelta operata secondo il criterio di costo beneficio. Visto che il capo dello Stato non può disporre una censura selettiva, relativa a una sola disposizione o a uno specifico complesso di norme di una legge, la conseguenza del rinvio di questo decreto sarebbe stata quella di determinare la decadenza di tutte le proroghe dei termini inserite nel provvedimento, con effetti a cascata dalla portata incalcolabile. Aveva senso sospendere l’intero Milleproroghe per impedire l’entrata in vigore di una norma comunque disapplicabile? Il capo dello Stato ha giudicato molto ragionevolmente di no. Questa circostanza spiega perché il potere di rinvio è stato quasi sempre centellinato e utilizzato due volte in tutto nelle ultime quattro legislature.

Se la prudenza dei presidenti è dunque più che comprensibile e a volte obbligata, occorre però riflettere sulle conseguenze di questa sostanziale insindacabilità di un processo legislativo, che, non solo con riferimento all’osservanza dei vincoli normativi europei (si pensi all’abuso della decretazione d’urgenza e ai disegni di legge di conversione, infarciti delle disposizioni più svariate e prive dei fondamentali requisiti di necessità), si discosta in modo sempre più irreparabile dai sui presupposti costituzionali. Se è difficile fermare il treno in corsa di una legislazione caotica, l’assenza di freni ne favorisce alla fine il deragliamento. Però è abbastanza illusorio pensare che questo fenomeno possa essere arginato dall’esterno – cioè dal Quirinale e, in estrema istanza, dalla Corte costituzionale – se non si torna a una qualche capacità di autoregolamentazione del sistema politico, ormai troppo abituato a usare la legislazione come mero instrumentum regni e sistema di manutenzione del consenso. Anche in questo caso, insomma, non sono forme di ortopedia istituzionale o di supplenza giurisdizionale a potere correggere, se non in circostanze eccezionali, gli abusi di una politica sbagliata e negligente. (Public Policy)

@carmelopalma

(foto Daniela Sala / Public Policy)