Dalla fine della convertibilità aurea a Trump. Se il dollaro non “prezza” più la competitività Usa

0

di Enzo Papi*

ROMA (Public Policy) – Nella teoria classica, formulata al tempo della moneta a base aurea, le merci provenienti da altri paesi venivano pagate con l’oro ottenuto in cambio delle merci esportate e, con le riserve auree (se ve ne erano) accumulato dalla banca centrale. Finita l’epoca del fiorino/ducato cioè di monete “internazionali” con cui la zecca del Paese garantiva solo il contenuto in peso dell’oro, si è passati alla moneta “assegno circolare” emessa dalla banca centrale (in verità erano più banche accreditate) che garantiva il pagamento di un certo quantitativo d’oro al portatore dell’”assegno moneta”.

Tale è stato il dollaro fino al 1971. Con la moneta ancorata al cambio aureo si poteva “svalutare” il contenuto del pagamento in oro. In tal modo, essendo il riferimento aureo valido universalmente, la moneta del Paese che salutava si svalutava anche rispetto a tutte le altre monete, che avevano un riferimento all’oro. La svalutazione diventava necessaria quando la banca centrale non poteva più garantire il pagamento in oro per pagare i beni esteri non bilanciati da esportazione, (deficit commerciale) per i quali doveva emettere nuovi “assegni” pagabili in oro, a fronte di una ridotta disponibilità aurea proprio a causa del deficit. Poteva attingere alle riserve auree, se ne aveva, ma se il deficit continuava, finalmente doveva abbassare la garanzia aurea della sua moneta, cioè svalutarne il valore in riferimento all’oro. Insomma, svalutare significava diminuire la quantità di oro pagabile per ogni unità monetaria. Così, di fatto, gli esportatori di merci denominate nella moneta nazionale accettavano meno oro in pagamento. Cioè veniva diminuito il prezzo aureo delle proprie merci con l’effetto di renderle più competitive, stimolando così l’export e spingendo verso il pareggio la bilancia commerciale.

Insomma il mercato, all’interno dell’area monetaria di riferimento, agisce sempre da selezionatore delle imprese più efficienti e può avere la stessa funzione tra aree monetarie diverse solo se il cambio agisce da misura di competitività (vedi la teoria dei vantaggi comparati). Volendo complicare ulteriormente il quadro si deve inserire l’effetto del flusso di capitali nel gioco della disponibilità di moneta a disposizione per il cambio in altre monete. Parliamo allora della “bilancia dei pagamenti” che somma il flusso di incassi e pagamenti da attività di commercio con i trasferimenti netti di capitali per investimento, da e verso altri Paesi. L’Italia, nel primo 900, fino agli anni 60 ha avuto un grosso aiuto finanziario dalle “rimesse degli emigranti” e nel primo dopo guerra da investimenti esteri interessati al lavoro a basso costo di mano d’opera di qualità. A questo va sommato il turismo che è una forma di “export di servizi” offerto sul nostro territorio. Insomma finché la moneta ha avuto un riferimento aureo (cioè ad un bene a “quantità finita”) il cambio misurava la competitività del sistema produttivo nazionale verso quello di altri Paesi e, pur con gli effetti di sostegno del flusso di capitali (in caso di ingresso) o di degrado ( in caso di fuga), obbligava il sistema produttivo interno a recuperare competitività o attraverso maggiore produttività o con l’abbassamento del costo del lavoro pagato in riferimento all’oro. La storia dell’economia, dalla Mesopotamia ad oggi ha sempre conosciuto una moneta a disponibilità “finita” (i casi dell’oro degli Incas che hanno arricchito per un secolo di moneta aurea la Spagna e insieme impoverito di capacità produttiva sono parentesi poco significative).

Dal 1971, con la fine della convertibilità aurea del dollaro, a cui le altre monete facevano riferimento, siamo entrati in un mondo inesplorato di cui oggi si cominciano a poter constatare gli effetti. Dichiarando la fine della convertibilità aurea del dollaro, gli Stati Uniti sono diventati titolari di una moneta senza i limiti oggettivi di un riferimento ad un bene “finito”. L’unico limite che il dollaro meramente fiduciario può incontrare sta nella convinzione di chi lo detiene che possa conservare valore e accettazione negli scambi con altre aree monetarie. Nell’esame di economia monetaria avevo sostenuto la tesi “assurda” che le indulgenze ecclesiastiche nel primo ‘500, se fossero state pagabili a vista al portatore, avrebbero costituito il primo esempio di moneta “meramente fiduciaria”: la Chiesa ne poteva emettere senza limiti, salvo la credibilità degli effetti sul purgatorio. Credibilità che Lutero contestò con conseguenze dramnatiche per il papato.

Quando gli Stati Uniti hanno dichiarato l’inconvertibilità erano il più grande protagonista del commercio internazionale, e il loro Pil costituiva circa il 50% di quello mondiale. Possedere dollari significava, in via diretta (acquisti di beni americani) o in via indiretta (merci da paesi terzi che avevano poi bisogno di dollari per acquisti in America) disporre di una moneta da tutti accettata e il dollaro sostituì, senza troppe contestazioni (salvo quelle di De Gaulle) in larga misura l’oro nelle riserve delle banche centrali dei vari Paesi. Cioè si venne a creare una domanda di dollari per usi finanziari (mezzo di pagamento o di riserva di valore) che non solo consentiva, ma chiedeva emissione di nuovi dollari per usi impropri per una moneta senza base sottostante e gli Stati Uniti, anche per soddisfare questa domanda – che però spingeva in alto il valore del dollaro, deprimendo la competitività della loro economia – hanno emesso moneta ben al di là di quanto necessario al loro commercio internazionale.

D’altra parte disporre di riserve in dollari, a differenza dell’oro, consente di impiegarle “a frutto” e ciò ha dato vita ad un mercato speculativo guidato dal miglior rendimento finanziario che ha coinvolto anche il risparmio privato alimentato dalle banche via veicoli specializzati, noti sotto il nome di ” fondi di investimento”. Poiché il dollaro è liberamente convertibile (anche un privato italiano puoi chiedere di convertire i suo risparmi in dollari) e la piazza di affari più libera e cosmopolita è Wall Street, si e creato un enorme mercato finanziario tra dollaro ed altre monete che determina il tasso di cambio in base a convenienze di rendimenti che sovrasta ampiamente il fabbisogno di valuta per i saldi commerciali.

Oggi sono i rendimenti da impieghi finanziari in dollari e euro o tra dollaro e yuan che determinano il cambio tra queste monete e lo si nota ogni volta che la Fed o la Bce ritoccano il tasso di interesse. Ma il dollaro è oggi anche largamente sostenuto da impieghi esteri nel mercato azionario americano, reso sicuro ed attraente da Quantative Easing necessari ad impedirne la caduta, che innescherebbe un disastro anche nelle banche retail americane, diventate oramai anch’esse investitori finanziari. (abolizione del Glass-Steagall act del 1999). Così il deficit commerciale di circa 800-1000 miliardi l’anno, che testimonia la drammatica perdita di competitività, cumulata negli anni, dell’economia produttiva americana non è corretto dal cambio finanziario. Non sorprende che un simile macroscopico squilibrio finisca per trovare soluzioni drammatiche nella lacerazione politica interna, dove la rottura sociale tra chi si arricchisce a Wall Street e chi non può più credere al “sogno americano” prende la forma della vittoria di un semplificatore populista di nome Donald Trump. (Public Policy)

*presidente Termomeccanica SpA