Draghi al Colle, più rischi che vantaggi // Nota politica

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di David Allegranti

ROMA (Public Policy) – Caminetti, concistori, messaggi a mezzo stampa. Si avvicina la scelta del nuovo presidente della Repubblica e i partiti politici, in evidente difficoltà, cercano di dimostrare all’opinione pubblica che ancora detengono antiche forme di potere.

Di conseguenza, l’individuazione del nuovo capo dello Stato appartiene agli arcana imperii. Non si sa chi potrebbe farlo; si sa soltanto che Sergio Mattarella la settimana scorsa ha ribadito con eleganza la sua indisponibilità a nuovi mandati, finanche dimezzati. Chi potrebbe trovare consenso – Mario Draghi – non dice ancora parole chiare sul proprio futuro. Certo, nei partiti abbondano i desideri: il principale è quello di non tornare al voto prima del 2023. Il che si traduce nella necessità di un Governo stabile. La domanda è chi potrebbe garantirla fino a fine legislatura se non lo stesso Draghi, che pure dovrà tenere a bada, più di quanto non sia avvenuto fin qui, gli appetiti dei leader politici.

L’autorevolezza dell’Esecutivo, dovuta essenzialmente al suo presidente del Consiglio, non è al momento replicabile. La maggioranza composita che sostiene il Governo ha dovuto fare ricorso a un tecnico, ancorché molto politico, perché non c’erano alternative, se non proseguire con il Conte 2. Il resto è storia; senza l’intervento di Matteo Renzi, il Governo Draghi non sarebbe effettivamente nato e ci sarebbe ancora forse Giuseppe Conte, sostenuto da una maggioranza composta anche da transfughi alla Lello Ciampolillo, cosiddetto responsabile.

Far traslocare Draghi al Quirinale creerebbe un vuoto politico a Palazzo Chigi che non sarebbe colmato neanche dalla promozione di un ministro dell’attuale Esecutivo. L’ineluttabilità draghiana impedisce di usarlo come jolly istituzionale, perché il sistema dei partiti ha dimostrato di non avere personale politico in grado di sfidare o sostituire i tecnici. Il che testimonia un’estrema fragilità della politica tradizionale, della quale fanno parte a pieno titolo adesso anche i 5 stelle, ormai così istituzionalizzati da far sembrare persino Luigi Di Maio una sorta di statista churchilliano, almeno a livello di autorappresentazione.

Draghi al Quirinale aiuterebbe il Paese più che da Palazzo Chigi? La capacità decisionale migliorerebbe? Forse è questa è l’illusione di chi pensa che il semipresidenzialismo di fatto già ci sia e che con Draghi presidente della Repubblica ci sarebbe un’ulteriore accelerata. Che ci sia chi si augura ravvicinate riforme presidenziali è indubbio, basta vedere la campagna che sta lanciando la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, su questo tema. Ma per ora i poteri presidenziali sono limitati da quello che dice la Costituzione. Draghi al Quirinale non potrebbe fare il lavoro di adesso; non potrebbe coordinare l’attività del Consiglio dei ministri, né partecipare agli incontri internazionali. Insomma, perché confondere le persone facendo pensare loro che il ruolo del presidente della Repubblica sia lo stesso di quello del presidente del Consiglio? Il dibattito comunque potrebbe finire presto. Basterebbe una frase, come quella di Mattarella. È legittimo aspettarsi un riferimento chiaro da parte di Draghi, che peraltro è l’unico a sapere esattamente che cosa vuole fare.

L’eventuale trasloco draghiano al Quirinale  insomma rischia di avere più svantaggi che vantaggi. Potrebbe apparire paradossale, visto che Draghi ha disarticolato le coalizioni, soprattutto quella di centrodestra, ma oggi il presidente del Consiglio è lo stabilizzatore del sistema politico. Di più, il suo garante. “Liberarsene” equivarrebbe a liberare anche gli animal spirits dei partiti italiani.

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@davidallegranti

(foto cc Palazzo Chigi)