di David Allegranti
ROMA (Public Policy) – Il Pd è stato, fin dalla sua nascita, parte integrante del sistema politico-istituzionale-mediatico. Ha governato quasi sempre (da qui la recente autoaccusa di governismo) e le cronache politiche dei giornali sono piene di resoconti quotidiani dettagliati su cosa si muova nel Pd. Le correnti. Chi sta con chi. Le alleanze. Sarebbe dunque persino impensabile immaginare un ecosistema politico senza Partito democratico. Forse è per questo che anche da fuori arrivano così tante sollecitazioni su come dovrebbe e potrebbe essere l’ex maggior partito di centrosinistra. Ex perché è nato per essere il primo partito al governo del Paese, e non lo è più, ma adesso sembra non sia più neanche il primo partito dell’opposizione, incalzato e superato nei sondaggi dal M5s di Giuseppe Conte. Il Pd ha un problema di identità (non si sa cos’è) ma anche, come dice l’ex deputato Fausto Raciti, un problema di gestione. Nessuno parla mai della gestione del Pd degli ultimi 5 anni, tutto si riduce a una discussione attorno a Matteo Renzi e al renzismo. Come se non fosse cambiato niente. Come se non ci fosse stata una scissione. Il congresso del Pd insomma pare ruotare attorno, fin dalla presentazione delle candidature, attorno all’idea che bisogna espungere dai democratici gli ultimi residui del renzismo.
Da una parte dunque c’è Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna, dall’altra la sua ex vicepresidente, Elly Schlein, eletta con il Pd in parlamento ma, come ci tiene a precisare lei, da indipendente. Entrambi contro le correnti, a parole, ma entrambi sostenuti dalle correnti. Il primo è un ex renziano sostenuto dagli ex renziani rimasti nel Pd (Base riformista), l’altra una agguerrita antirenziana, sostenuta da tutti quelli che hanno sempre avuto in uggia Renzi. Con lei, per l’appunto, c’è la classe dirigente che ha gestito il Pd da sempre, in ruoli più o meno di responsabilità. Questi dirigenti di partito vedono in lei la possibilità di liberarsi definitivamente del fardello renziano.
La sua vittoria trasformerebbe il Pd in un partito di sinistra ed eliminerebbe l’ambiguità (riformatori o progressisti?) del Pd. Non risolverebbe forse il problema del rapporto con il M5s, la cui funzione politica e ragione sociale è sempre stata, fin da quando è nato, quella dell’antagonismo. I 5 stelle nascono contro il centrosinistra, Beppe Grillo crea insieme a Gianroberto Casaleggio il M5s in odio a tutto quello che il Pd ha sempre rappresentato. Le alleanze che sono nate sono state strumentali e sono servite anzitutto ai populisti per raggiungere l’obiettivo di normalizzare il centrosinistra. I barbari non sono stati romanizzati, il Pd ha invece sofferto di una pesante subalternità culturale, come dimostra il voto sul taglio del numero dei parlamentari. Vale dunque la domanda: con Schlein segretaria del Pd, la relazione con il M5s come cambierebbe? Nascerebbe un’intesa naturale a partire da società e diritti o una competizione a sinistra?
Viene tuttavia da chiedersi che cosa farebbero i riformatori o riformisti in caso di vittoria di Elly Schlein (in attesa peraltro di capire che cosa farà la Ditta, cioè Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza). Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, ha già spiegato che se le cose cambiassero molto, se ne andrebbe. Potrebbe non essere il solo. Il Terzo polo forse attende al varco alcuni ex compagni di viaggio che potrebbero raggiungerli. Difficile ipotizzare un loro spostamento più a destra.
@davidallegranti