di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – La piega che ha preso la discussione sul reddito di cittadinanza conferma che la posta in gioco non è welfaristica, ma ideologica. Il fatto che sia un istituto mediocre, che ha beneficiato solo una minoranza di quanti versano in condizioni di povertà assoluta, non è una ragione di imbarazzo per i sostenitori della madre di tutte le battaglie M5s, perché il suo obiettivo non era di nutrire gli affamati, ma di affermare un nuovo ideale di giustizia, che, in modo coerente con la futurologia grillina, prendesse atto della “fine del lavoro” come strumento di promozione e emancipazione sociale.
Da molti punti di vista quella di Grillo voleva essere una vendetta politica alla smentita della profezia marxiana sul fallimento del capitalismo per la caduta tendenziale del saggio di profitto, cioè per l’aumento del capitale costante, l’apparato tecnologico, a scapito del capitale variabile, cioè i salari dei lavoratori.
Visto che il capitalismo però non si è affatto suicidato e l’evoluzione tecnologica ne ha al contrario trasformato non solo l’architettura produttiva, ma anche quella sociale – si pensi all’immigrazione di massa denunciata come un meccanismo di compressione delle retribuzioni – allora Grillo ha pensato che lo si potesse lentamente ammazzare, massimizzando la durata e i vantaggi di questa agonia. C’è del metodo, in questa allucinazione.
Dalla socializzazione dei mezzi di produzione, a quella dei profitti. Dalla riappropriazione del lavoro salariato, alla sostituzione del reddito da lavoro con quello di Stato, ma non legato alla produzione. Le macchine lavorano, i padroni guadagnano, ma il popolo si appropria di questi profitti e ci campa senza bisogno di lavorare. Grillo lo diceva: “Il lavoro da reddito scomparirà” e tutti pensavano che scherzasse. Non scherzava affatto.
In Italia il reddito di cittadinanza nasce dunque così, come un ibrido ideologico contraddittorio che per un verso tenta di trasformare la “fine del lavoro”, ritenuta inevitabile per le trasformazioni tecnologiche del sistema produttivo, in una rendita sociale e dall’altra parte prova a presentarsi, in modo più tradizionale, come uno strumento redistributivo universale.
Se i processi di “liberazione del lavoro” dall’inizio della rivoluzione industriale a oggi sono stati di emancipazione da forme disumane di sfruttamento e di autonomia e di auto-organizzazione politica, il processo di “liberazione dal lavoro” riporta la lancetta della storia indietro di secoli. Il reddito di cittadinanza è la paga del sovrano ai sudditi e un vero e proprio crisma di minorità civile. I poveri si sono per secoli liberati dalla povertà e dalla dipendenza dal potere proprio attraverso il lavoro; ora la promessa è di renderli felici attraverso la liberazione dalla dipendenza dal lavoro e la subordinazione allo Stato pagatore.
Il carattere politicamente regressivo del reddito di cittadinanza Grillo style è dimostrato proprio dalle sue caratteristiche esplicitamente razziste, su cui tutta la sinistra italiana – quella riformista, come quella antagonista – ha per lo più bellamente sorvolato, come se si trattasse di un particolare di poco conto e non di un segno eloquente della natura di questo istituto.
Il Rdc è infatti una misura che discrimina gli stranieri dagli italiani, i bisognosi privi di patente nazionale da quelli che possono pretendere il soccorso pubblico perché appartenenti allo Stato. Non possono infatti richiedere il reddito di cittadinanza gli stranieri con meno di dieci anni di residenza in Italia, anche se privi di mezzi di sussistenza. Sul punto, notoriamente problematico, è pendente una questione di costituzionalità davanti alla Consulta sollevata dalla Corte di appello di Milano ed è stata proposta domanda di un pronuncia pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea di Lussemburgo da parte del Tribunale di Napoli. Le conseguenze di questa scelta sono state letteralmente grottesche. Il Rapporto 2022 su povertà e esclusione sociale della Caritas (non proprio una centrale dell’odio verso i poveri o della propaganda contro il M5s) documenta in modo spietato il paradosso di una misura, che beneficia molto meno della metà dei poveri assoluti e si concentra quasi esclusivamente sui cittadini italiani, pur essendo la povertà assoluta quattro volte più diffusa tra gli stranieri.
La stessa Caritas sottolinea inoltre il meccanismo intrinseco al funzionamento di questo strumento, che danneggia le famiglie più numerose e bisognose, con la conseguenza che il 70% dei percettori vive al Sud, malgrado al Sud vivano solo il 42% delle famiglie povere. Tutti questi però non sono “difetti”. Sono segni della natura di uno strumento che è stato pensato come un vero e proprio stipendio di Stato individuale, prima che come una provvidenza sociale, che dovrebbe, al di là di ogni considerazione di utilità e efficienza, almeno fotografare correttamente le reali condizioni di bisogno, che dice di volere alleviare. Fotografia che il Rdc invece distorce in modo quasi caricaturale. Non è casuale che questa ipocrisia ideologica abbia innescato una reazione altrettanto ipocrita e moralista contro il reddito di cittadinanza come appannaggio dei “fannulloni”, secondo la rappresentazione distorta che la destra fa di questa misura.
Il declino italiano, di cui bassi tassi di occupazione, bassa produttività, basse retribuzioni e rapida diffusione della miseria sono alcune delle prevedibili manifestazioni non è una somma di vizi privati, ma un prodotto di scelte pubbliche sbagliate, che hanno depresso la qualità del capitale umano e il dinamismo del sistema economico. Se si spende per decenni in pensioni quel che si dovrebbe spendere in istruzione e si produce, inevitabilmente, un Paese con meno laureati e più pensionati degli altri Paesi Ue o Ocse, descrivere la situazione italiana come il frutto di una calamità, come fanno i sostenitori del Rdc, o della pigrizia dei nostri connazionali, come fanno le forze della destra, poggia, di fatto, su una comune impostura.
Ben diverso sarebbe – ma in Italia non si fa, perché suona pericolosamente impopolare –analizzare anche i sussidi sociali sotto il profilo degli incentivi che istituiscono per il lavoro e il non lavoro. Per esempio, sarebbe giusto discutere del Rdc in confronto al meccanismo dell’imposta negativa, cioè di un sussidio fiscale, che viene riconosciuto a chiunque abbia redditi nulli o bassi e che può essere conservato, in misura decrescente, al crescere del reddito da lavoro. Insomma un sussidio che incentiva a lavorare e che funziona solo come un rimedio alla povertà, non come una alternativa al lavoro.
Sullo sfondo di questo progressivo e alienato scivolamento del welfarismo verso un modello di sostanziale eutanasia sociale vale comunque la pena di ricordare che se sono esistiti Paesi capaci di sostenere alti livelli di crescita anche con alti livelli di protezione sociale, nessun Paese è mai stato capace di finanziare un solidarismo non puramente parolaio con una economia in sofferenza o in declino. Un’altra verità banale, che nella contro-storia dell’anticapitalismo populista è diventata impronunciabile. (Public Policy)
@carmelopalma